Accanto ai contadini c'erano un tempo in tutti i paesi della Valle dei Laghi molti piccoli artigiani specializzati in settori specifici. Spesso il mestiere si tramandava di generazione in generazione ma altrettanto spesso le persone si adattavano alle esigenze del momento, imparavano sul campo e mettevano in gioco inventiva, passione e capacità pratiche per permettere la sopravvivenza della loro famiglia. Troviamo in questa collezione artigiani; luoghi, macchine e attrezzi di lavoro degli artigiani, prodotti degli artigiani.
Ecco qualche brano tratto dal comunicato:
"Egregio Mugnaio Artigiano,
come è noto, la rappresentanza sindacale della Vostra Ditta è affidata alla Federazione Fascista Autonoma degli Artigiani d’Italia."
"Il gran numero delle disposizioni legislative riguardanti l’industria molitoria fa sentire ai nostri organizzati l’utilità e la necessità di un’assistenza tecnica, legale e tributaria, data con competenza e completo disinteresse. Crediamo opportuno specificare le forme di assistenza gratuitamente offerte: "
"Nota
Si è creduto opportuno di ricordare ai Mugnai Artigiani che presso la propria Segreteria dell'Artigianato funziona uno speciale Ufficio di Assistenza.
Ciò perché i mugnai sappiano salvaguardarsi da pseudo società assistenziali a carattere privato e perciò speculative.
La Comunità Nazionale non può e non intende devolvere a nessuno tali assistenze di sua esclusiva spettanza; e pertanto, se ai molini artigiani si presentassero inviati di società private, i mugnai sono avvertiti che essi possono rivolgersi per tali assistenze alla Segreteria della loro organizzazione."
"I fratelli Pisoni Stefano ed Emmanuele fu [Biagio] detti biasi segantini di Calavino" chiedono un prestito di 500 corone al 5 % di interesse che "venne dagli stessi adoperato quest'importo per pagare dei legnami di larice a Chistè Alfonso di Ezechiele di Lasino, quale procuratore di una massa di colà."
Compare qui il soprannome di famiglia "Biasi" (di Biagio).
In questo registro vengono segnate ogni volta: data, paese, nome e cognome, tipo di farina, chili, a volte la professione.
Possiamo notare che il mulino oltre a Calavino serve regolarmente Lasino, Madruzzo e Sarche (talvolta "Sarcha").
Vediamo che ad inizio registro, di Sarche è registrata una "marcanta" ed in seguito un "Candido marcante" che nel corso di questi 10 mesi acquistano oltre 600 chili di farina gialla, oltre 100 chili di farina bianca e 7 chili di minestra. Il "marcante Andrea" di Lasino ne compera 300 chili di gialla.
Già da qui si capisce che la fa a gran lunga da padrona la farina gialla, vengono poi citate la farina bianca e di segala.
Da notare come le quantità siano molto aumentate rispetto al registro della stessa famiglia del 1891-92:
Nella registrazione della farina macinata come si evince dai titoli di colonna a pagina 15, il numero davanti indica i "Kili" e quello in fondo indica gli "steri" (staio). Non è chiaro se la prima colonna indichi le entrate di cereali e l'ultima le uscite di farina.
Nella colonna centrale sono invece indicati i nomi, o cognomi o mestieri dei clienti, ma anche zii o zia Pasqua [moglie di Biagio] o zia Nanele, e talvolta è indicato il prodotto.
A capo pagina, o di fianco, trovano posto le date.
Tra i prodotti oltre al frumento notiamo "giala" (farina gialla), segala, orzo, "setila" (macinata sottile), "formenton" (grano saraceno).
Fra i mestieri compaiono "marcanta" (commerciante femmina), "tessader" (tessitore), maestro, "monec" (sacrestano), "comare" (ostetrica), curato.
I nomi si ripetono spesso in quanto il grano si salva più facilmente della farina per cui veniva macinato man mano che serviva.
Nella prima pagina troviamo la data di inizio di questa registrazione: 10 novembre 1891; nell'ultima il resoconto: "Soma totale fino ogidì 22/9-92 Kilogrami maicinati K1.350.76 Frateli Pisoni".
Sono questi i figli di Antonio Pisoni morto nel 1885, la firma potrebbe essere del maggiore: Lodovico (1863-1944).
Così chiamato dall'ultima famiglia proprietaria indicata con cognome e soprannome, è l’ultimo edificio sulla sinistra della vecchia strada imperiale, poco prima della “Pontàra” (= erta), che scende verso Padergnone. Le ruote idrauliche erano alloggiate sulla facciata ad ovest, lambita in sponda orografica destra dalla Roggia, che dopo un breve tratto si gettava nell’orrido della val dei Canevai, fornendo energia alle ruote idrauliche dei mulini sottostanti.
Nello stesso edificio acquistato da Antonio Giovanni Pisoni (1799-1863?) di Lasino, con la moglie Teresa Chistè, nel 1844 da Vincenzo Panicali di Trento c'erano ben "5 ruote idrauliche per macinazione grani, follo e segheria".
La famiglia vi si trasferì e li nacque la loro undicesima e ultima figlia nel 1845. Il figlio Antonio (1820-1885) si occupò del mulino ed il figlio Biagio (1837-1878) della segheria.
Sui registri parrocchiali dei nati a Lasino, Antonio Giovanni ed i suoi antenati fin dal 1500 erano soprannominati Nanotti (da Giovanni = Nane), ma Biagio (1911-1996), nipote di Biagio segantino sopra nominato, venne registrato col soprannome di "Biasi". Nei nostri paesi, dove nome e cognome erano spesso ripetuti, il soprannome di famiglia era così importante da venir segnalato nei registri delle nascite.
Dopo Antonio continuò l'attività molitoria di famiglia il figlio Quirino fino alla sua morte senza eredi nel 1942.
Dopo Biagio continuarono a lavorare alla segheria i figli Stefano ed Emanuele, poi i nipoti Biagio e Valerio, fino al 1968 quando fu demolita. L'ultimo lavoro importante è stato quello di segare i tronchi detti "marcia avanti" per le gallerie della centrale di S. Massenza.
Il follo non è mai stato utilizzato dai Pisoni Biasi; oltre al documento, rimane però il segno sul muro della sua posizione. Una quinta ruota è stata invece aggiunta dalla parte opposta dell'edificio, in sostituzione di quella, a favore di una circolare, posta nel cortile, collegata ad un lungo palo di trasmissione che attraversava tutto l'edificio. Negli anni '40, collegata con cinghie allo stesso palo di trasmissione, è stata aggiunta una sega a nastro (bindella) all'interno della segheria.
Curioso come sulla mappa storica del 1860 sia indicata sull'edificio una sola ruota nell'illustrazione riferita al paese, due ruote su quella riproducente l'intero territorio; forse sulla prima la ruota indicava la famiglia proprietaria dell'edificio (Antonio Pisoni) mentre sulla seconda le ruote indicavano le due attività che vi si svolgevano: molitoria e segheria.
Nella località di Pendè, nei pressi dell’omonimo ponte, dei documenti storici attestano la presenza dei fabbri della famiglia a Prato di Vezzano a partire dalla metà del XVI secolo. Questi forestieri trasformavano la forza idraulica della roggia in motrice per azionare gli utensili necessari ai lavori della fucina. In proposito si ricordano le diatribe, sorte nel 1583, tra Francesco della famiglia a Prato e la comunità di Padergnone ed Aliprando Madruzzo (il regolano maggiore di Calavino) per stabilire le condizioni per lo sfruttamento idrico di quel punto della roggia. Un’ulteriore testimonianza del possibile proseguo dell’attività della fucina si ritrova nell’appellativo “mastro” affiancato a Giovanni a Prato fu Francesco come testimone di una lite tra il comune di Vezzano ed alcuni privati. Egli infatti fu privato del diritto di “far pascolar bestie e far legna” nel territorio di Vezzano a causa delle sue attività presenti nel padergnonese. Tuttavia, in seguito alla diretta opposizione del vescovo Carlo Madruzzo nel 1612, l’attività degli a Prato in Pendè ipoteticamente si concluse.
Purtroppo, l'assenza di notizie significative posteriori ha reso impossibile, nonostante i numerosi sopralluoghi effettuati, la corretta localizzazione dell'attività.
[ricerca a cura di Caterina Zanin e Silvano Maccabelli per Ecomuseo della Valle dei Laghi]
Approfondimenti consultabili qui a pag.372-373 ed il ponte di Pendé è segnalato su una mappa del 1767 pubblicata a pag. 428:
Il nuovo Mulino Miori, che possedeva la concessione per la derivazione dal lontano 1892, fu attivo nella prima parte del XX secolo. Infatti, la denuncia del suo accatastamento, a nome di Giuseppe ed Emanuele Miori, figli del mugnaio Giacomo Gioacchino impiegato presso il “Mòlin dei Pradi”, risale all’anno 1902 e la costruzione dell’edificio al 1901, come evidenziato dalla data incisa sul portone d’ingresso.
Il Nuovo Mulino di Giuseppe Miori, nato con il sistema a cilindri, era in grado di macinare in un’ora la stessa quantità di farina che produceva in una giornata un opificio a macina. Nel 1924 Giuseppe Miori installò una turbina del modello Francis, acquistata a Schio (VI), per potenziare l’efficienza dell’opificio. Infatti quest’ultima azionava una dinamo che generava la corrente elettrica, utilizzata ancora oggi a scopo privato, per il motore del mulino e per scaldare il forno del panificio. Il collettore della dinamo veniva utilizzato la notte presso il mulino per poi essere trasferita per il lavoro mattutino presso il vicino cementificio Miori.
Il mulino continuò a produrre la farina fino agli anni ’30 – ’40 del Novecento.
Il Nuovo Mulino Miori ospitava un laboratorio di panificazione, aperto nel 1906, per combattere la pellagra che affliggeva il territorio all’epoca. Il pane cotto dall’impresa Miori veniva venduto nei paesi vicini e trasportato perfino a Terme di Comano ed a Garniga del Bondone. A Giuseppe sono seguiti nella conduzione del panificio e del mulino i figli Lino e Raimondo e poi i figli di quest'ultimo Claudio e Luciano che, nel 2002, lo ha trasferito a Sarche ed ha aperto anche una pasticceria.
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Bibliografia:
Il “Mólin de la Gióana”, presente almeno dal 1860 nelle mappe catastali asburgiche, lavorò fino al 1922. Questo opificio appartenne alla famiglia di Corrado Tonini sicuramente dall’inizio del Novecento. All’esterno, adagiate in una splendida aiuola di lavanda, sono visibili le macine del mulino e, se si segue il corso della roggia, si può scorgere ancor oggi la derivazione del Nuovo Mulino Miori.
La spinta dell'acqua qui è decisamente più forte che ai mulini precedenti ed il motto “El pòl se 'l vòl” [Dio], ripetuto più volte riproduceva il ritmo della rotazione di questa ruota; insieme a quelli degli altri mulini è stato poi ripreso nel canto:
Questo elemento in pietra con feritoia conservato all'interno dell'ex "Molin del Pero" serviva, in coppia con un altro, a sostenere l’albero motore del mulino, il quale trasmetteva il movimento della ruota idraulica esterna alle macine in pietra all'interno del mulino.
All'esterno dell'edificio una stampa presenta questi elementi dell’antico opificio.
Sotto il santuario di san Valentino, in loc. Busoni (busòn, ossia grande buco è la forra scavata dalla Roggia Grande), nascosti dalla vegetazione, accanto al "Maso di San Valentino" o "Maso della sega", emergono i resti dell’antica Sèga del Tòf (segheria del travertino) dei Bassetti, attiva almeno dal 1893, come attesta l’ordine di tufo effettuato da un sacerdote di Saone.
Nella sega si tagliavano, nella forma di mattoni da opera, i blocchi di “tòf” estratti dal dosso di San Valentino. Solitamente il “tòf” veniva impiegato, come materiale particolarmente leggero ed isolante, per ridefinire le volte o per realizzare le pareti non portanti degli edifici. Nel 1907 fu utilizzato nell’edificazione della chiesa di Vezzano che, tuttavia, cadde di schianto dopo breve tempo.
L’edificio, oramai inaccessibile, era strutturato su due piani. Sulla parete ovest del piano inferiore si intravedono i resti del vecchio canale di derivazione che alimentava la ruota idraulica.
Nei muri eretti nella campagna di Padergnone si possono trovare esempi di mattoni in “tòf” tagliati dalla sega locale.
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Bibliografia
Il “Mòlin dei Pradi”, situato all’incrocio tra via XII Maggio e via San Valentino, risale almeno al principio del XVIII secolo. All’epoca era gestito dalla famiglia Bassetti di Santa Massenza e, come testimonia un documento coevo, venne distrutto nel 1703 dai soldati francesi comandati dal generale Vendôme. Forse a tale opificio si può ricondurre anche il riferimento ad un mulino, presente in una pergamena del 1609, che confinava ad ovest con la via communis (probabilmente la strada imperiale, oggi di campagna).
Nel corso dell’Ottocento lo stabile passò in proprietà alla famiglia padergnonese dei Sembenotti e, come evidenziato dalla consultazione del Libro dei Nati, si registrò la presenza in loco di un certo Giacomo Gioacchino Miori (1802-1871) di professione mugnaio [presso molino Sembenotti?] originario del paese di Lon. Al termine del secolo i suoi figli, Giuseppe (nato 1867) ed Emanuele (1869) Miori, rilevarono il molino dai Sembenotti. Emanuele Miori proseguì l’attività paterna almeno fino al 1910 e probabilmente chiuse i battenti prima della fine degli anni ’20.
Giuseppe Miori aprì un nuovo mulino innovativo, a cilindri, poco sotto il "Molin dela Gioana".
In questo tratto la roggia è pianeggiante e la spinta è lenta come quella dell'espressione "Dio 'l t'aiuta" associata a questo mulino e ripresa nel canto:
Il Mòlin del Péro si raggiunge percorrendo il "Vòlt dei Caschi" tra via XII Maggio e via Montagnola. Quest’attività fu chiusa al termine della Prima Guerra Mondiale a causa del grave infortunio incorso (seppur non in battaglia) al suo titolare: Pietro Tonini.
Alcuni studiosi, basandosi sulla consultazione di documenti storici e sull’osservazione della struttura dell’edificio, sostengono che questo possa essere il più antico opificio nominato nella copia cinquecentesca dello Statuto di Vezzano – Padergnone. La sua presenza è riportata anche in una pergamena del 1609 testimoniante la vendita di un terreno posto vicino al mulino da parte di Tommaso del fu Francesco Chemelli di Padergnone a ser Valentino del fu Matteo. Infine, è stato disegnato anche nell’apparato cartografico del catasto asburgico del 1860.
La spinta dell'acqua qui è un po' più forte che al "Molin dei pradi" ed il motto “Se ‘l podrà ‘l te aiuterà” [Dio], ripetuto più volte riproduceva il ritmo della rotazione di questa ruota; insieme a quelli degli altri mulini è stato poi ripreso nel canto:
Il "mulino Chistè Dorigo", in località "Massiccia", chiamato "dei Tómpi", dall'antico soprannome di famiglia, è l'unico mulino del comune catastale di Lasino di cui rimane traccia ed essendo nelle vicinanze di Calavino lo inseriamo in quel gruppo.
Ora non rimane che un rudere che ci permette di localizzarlo con precisione, ma lo troviamo documentato sulla cartina storica del 1860 ed è citato fra i 26 mulini attivi a Calavino in un atto del Distretto Giudiziale di Vezzano, datato 17 settembre 1819, con cui i vicini di Calavino protestavano contro le tasse introdotte dalla nuova "Legge sulle Acque" del 1818.
Si trova ai piedi di un piccolo dosso sovrastante la piana del Grumèl, accanto ad una cascatella della roggia di Valle, in questo tratto chiamata roggia di Larì, dalla quale evidentemente partiva la derivazione a suo servizio.
Sarà quello stesso mulino citato in un'investitura del 1235 e ripresa nel 1278 che parla di un mulino "subtus Grumum apud Calavinum"? Considerata la derivazione di Grumèl da "grumus, grumulus", cioè "mucchio di terra", e che questa località è vicina a Calavino, sembra proprio di sì.
Non è certo se questo carro sia stato realizzato da Tullio Morandi o da suo padre, Casimiro; quel che è certo è che rispecchia fedelmente la struttura dei carri che realizzavano nel loro laboratorio.
Il piano di carico, detto scalà, si può togliere proprio come nella realtà e sotto ha fissato la cassa degli attrezzi.
Tolto quello si può osservare meglio la struttura del carro ed il sistema frenante (martinicca) azionato dalla manovella ("macanìcola") posta sul retro che agiva su una trave ("mànghen") sospesa al bilancino ("balanzìn") e terminante con ceppi di legno ("ciòchi") che andavano a spingere sulle ruote.
Sul retro veniva decorato nel rispetto del gusto del compratore.
Per approfondire la conoscenza del carro si consiglia lettura di Retrospettive (1990-3) - pag. 18-23:
La botte della tromba idroeolica, "bót de l'òra" in dialetto, dei Manzoni è oggi conservata presso il Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina - San Michele all'Adige e la si può vedere ricostruita nel cortile all'entrata. È stata lasciata in parte aperta per poter vedere la pietra su cui batteva l'acqua al suo interno.
Sul tavolo di pietra all'entrata della vecchia officina Morandi, accanto alla morsa, qualche resto di prodotti ed attrezzi, spicca il prezziario "tariffa molature coltelli e trinciaforaggi, sarlati e manaroti" un connubio di scrittura antica fra italiano e dialetto.
Negli anni '40 l'officina Morandi è stata riconvertita all'uso dell'energia elettrica, qui le piccole ruote a cassetta in ferro che la alimentavano, come si presentano a 50 anni dall'abbandono.
Cinquant'anni dopo l'abbandono, la tromba idroeolica, in dialetto locale "bót de l'òra", dei Morandi permette ancora di capirne la struttura. Vista dal basso possiamo notare la grande botte di pietra, l'alto tubo che formava la cascata, parte del canale che le portava l'acqua ed il tubo più sottile che entrava nella fucina per fornire ossigeno al fuoco.
La vista da fuori è quello che possiamo osservare anche percorrendo via Ronch.
All'interno della fucina Morandi, chiusa fin dagli anni '60 vediamo ancora la fucina, cioè il focolare a carbone del fabbro nel quale venivano riscaldati sino all'incandescenza piccoli pezzi di ferro che venivano poi lavorati per percussione sull'incudine o al maglio. In questa stessa foto vediamo il maglio, in primo piano il basamento su cui poggiava l'incudine, sotto le finestre la mola, con la sua ruota in pietra abrasiva utilizzata per affilare tutti gli utensili in ferro realizzati.
Luogo pieno d'acqua dove si macera la canapa o il lino. È chiamato così anche il luogo dove si riduce il tabacco o simili ad un certo grado di pastosità per poi produrre il tabacco da fiuto o da masticare.
L'intervista alla signora Amelia è stata fatta su invito di Carlo, uno dei bambini coinvolti nel "Progetto calendario" che Ecomuseo sta svolgendo con la collaborazione delle scuole del territorio.
Amelia, classe 1940, ha lavorato alla fabbrica delle noci Bressan di Fraveggio, dal 1955 fino alla chiusura della stessa nel 1965.
Era un lavoro stagionale che occupava fino ad una cinquantina di donne da inizio novembre a fine marzo.
Ci ha raccontato la sua esperienza in lingua italiana ma poi, tornando sull'argomento, siamo passate al dialetto cosicché nell'ultima parte si può sentire la parlata di Vezzano.