Accanto ai contadini c'erano un tempo in tutti i paesi della Valle dei Laghi molti piccoli artigiani specializzati in settori specifici. Spesso il mestiere si tramandava di generazione in generazione ma altrettanto spesso le persone si adattavano alle esigenze del momento, imparavano sul campo e mettevano in gioco inventiva, passione e capacità pratiche per permettere la sopravvivenza della loro famiglia. Troviamo in questa collezione artigiani; luoghi, macchine e attrezzi di lavoro degli artigiani, prodotti degli artigiani.
Il nuovo Mulino Miori, che possedeva la concessione per la derivazione dal lontano 1892, fu attivo nella prima parte del XX secolo. Infatti, la denuncia del suo accatastamento, a nome di Giuseppe ed Emanuele Miori, figli del mugnaio Giacomo Gioacchino impiegato presso il “Mòlin dei Pradi”, risale all’anno 1902 e la costruzione dell’edificio al 1901, come evidenziato dalla data incisa sul portone d’ingresso.
Il Nuovo Mulino di Giuseppe Miori, nato con il sistema a cilindri, era in grado di macinare in un’ora la stessa quantità di farina che produceva in una giornata un opificio a macina. Nel 1924 Giuseppe Miori installò una turbina del modello Francis, acquistata a Schio (VI), per potenziare l’efficienza dell’opificio. Infatti quest’ultima azionava una dinamo che generava la corrente elettrica, utilizzata ancora oggi a scopo privato, per il motore del mulino e per scaldare il forno del panificio. Il collettore della dinamo veniva utilizzato la notte presso il mulino per poi essere trasferita per il lavoro mattutino presso il vicino cementificio Miori.
Il mulino continuò a produrre la farina fino agli anni ’30 – ’40 del Novecento.
Il Nuovo Mulino Miori ospitava un laboratorio di panificazione, aperto nel 1906, per combattere la pellagra che affliggeva il territorio all’epoca. Il pane cotto dall’impresa Miori veniva venduto nei paesi vicini e trasportato perfino a Terme di Comano ed a Garniga del Bondone. A Giuseppe sono seguiti nella conduzione del panificio e del mulino i figli Lino e Raimondo e poi i figli di quest'ultimo Claudio e Luciano che, nel 2002, lo ha trasferito a Sarche ed ha aperto anche una pasticceria.
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Bibliografia:
L’intraprendenza di Giuseppe Miori e la nascita di un mulino, un cementificio e di due pescicolture a cura di Caterina Zanin, pag. 78-83, IN:
Il “Mólin de la Gióana”, presente almeno dal 1860 nelle mappe catastali asburgiche, lavorò fino al 1922. Questo opificio appartenne alla famiglia di Corrado Tonini sicuramente dall’inizio del Novecento. All’esterno, adagiate in una splendida aiuola di lavanda, sono visibili le macine del mulino e, se si segue il corso della roggia, si può scorgere ancor oggi la derivazione del Nuovo Mulino Miori.
La spinta dell'acqua qui è decisamente più forte che ai mulini precedenti ed il motto “El pòl se 'l vòl” [Dio], ripetuto più volte riproduceva il ritmo della rotazione di questa ruota; insieme a quelli degli altri mulini è stato poi ripreso nel canto:
Questo elemento in pietra con feritoia conservato all'interno dell'ex "Molin del Pero" serviva, in coppia con un altro, a sostenere l’albero motore del mulino, il quale trasmetteva il movimento della ruota idraulica esterna alle macine in pietra all'interno del mulino.
All'esterno dell'edificio una stampa presenta questi elementi dell’antico opificio.
Sotto il santuario di san Valentino, in loc. Busoni (busòn, ossia grande buco è la forra scavata dalla Roggia Grande), nascosti dalla vegetazione, accanto al "Maso di San Valentino" o "Maso della sega", emergono i resti dell’antica Sèga del Tòf (segheria del travertino) dei Bassetti, attiva almeno dal 1893, come attesta l’ordine di tufo effettuato da un sacerdote di Saone.
Nella sega si tagliavano, nella forma di mattoni da opera, i blocchi di “tòf” estratti dal dosso di San Valentino. Solitamente il “tòf” veniva impiegato, come materiale particolarmente leggero ed isolante, per ridefinire le volte o per realizzare le pareti non portanti degli edifici. Nel 1907 fu utilizzato nell’edificazione della chiesa di Vezzano che, tuttavia, cadde di schianto dopo breve tempo.
L’edificio, oramai inaccessibile, era strutturato su due piani. Sulla parete ovest del piano inferiore si intravedono i resti del vecchio canale di derivazione che alimentava la ruota idraulica.
Nei muri eretti nella campagna di Padergnone si possono trovare esempi di mattoni in “tòf” tagliati dalla sega locale.
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Bibliografia:
La Sega del travertino - a cura di Caterina Zanin e Silvano Maccabelli, pag. 76-77, IN:
Il “Mòlin dei Pradi”, situato all’incrocio tra via XII Maggio e via San Valentino, risale almeno al principio del XVIII secolo. All’epoca era gestito dalla famiglia Bassetti di Santa Massenza e, come testimonia un documento coevo, venne distrutto nel 1703 dai soldati francesi comandati dal generale Vendôme. Forse a tale opificio si può ricondurre anche il riferimento ad un mulino, presente in una pergamena del 1609, che confinava ad ovest con la via communis (probabilmente la strada imperiale, oggi di campagna).
Nel corso dell’Ottocento lo stabile passò in proprietà alla famiglia padergnonese dei Sembenotti e, come evidenziato dalla consultazione del Libro dei Nati, si registrò la presenza in loco di un certo Giacomo Gioacchino Miori (1802-1871) di professione mugnaio [presso molino Sembenotti?] originario del paese di Lon. Al termine del secolo i suoi figli, Giuseppe (nato 1867) ed Emanuele (1869) Miori, rilevarono il molino dai Sembenotti. Emanuele Miori proseguì l’attività paterna almeno fino al 1910 e probabilmente chiuse i battenti prima della fine degli anni ’20.
Giuseppe Miori aprì un nuovo mulino innovativo, a cilindri, poco sotto il "Molin dela Gioana".
In questo tratto la roggia è pianeggiante e la spinta è lenta come quella dell'espressione "Dio 'l t'aiuta" associata a questo mulino e ripresa nel canto:
Il Mòlin del Péro si raggiunge percorrendo il "Vòlt dei Caschi" tra via XII Maggio e via Montagnola. Quest’attività fu chiusa al termine della Prima Guerra Mondiale a causa del grave infortunio incorso (seppur non in battaglia) al suo titolare: Pietro Tonini.
Alcuni studiosi, basandosi sulla consultazione di documenti storici e sull’osservazione della struttura dell’edificio, sostengono che questo possa essere il più antico opificio nominato nella copia cinquecentesca dello Statuto di Vezzano – Padergnone. La sua presenza è riportata anche in una pergamena del 1609 testimoniante la vendita di un terreno posto vicino al mulino da parte di Tommaso del fu Francesco Chemelli di Padergnone a ser Valentino del fu Matteo. Infine, è stato disegnato anche nell’apparato cartografico del catasto asburgico del 1860.
La spinta dell'acqua qui è un po' più forte che al "Molin dei pradi" ed il motto “Se ‘l podrà ‘l te aiuterà” [Dio], ripetuto più volte riproduceva il ritmo della rotazione di questa ruota; insieme a quelli degli altri mulini è stato poi ripreso nel canto:
Il "mulino Chistè Dorigo", in località "Massiccia", chiamato "dei Tómpi", dall'antico soprannome di famiglia, è l'unico mulino del comune catastale di Lasino di cui rimane traccia ed essendo nelle vicinanze di Calavino lo inseriamo in quel gruppo.
Ora non rimane che un rudere che ci permette di localizzarlo con precisione, ma lo troviamo documentato sulla cartina storica del 1860 ed è citato fra i 26 mulini attivi a Calavino in un atto del Distretto Giudiziale di Vezzano, datato 17 settembre 1819, con cui i vicini di Calavino protestavano contro le tasse introdotte dalla nuova "Legge sulle Acque" del 1818.
Si trova ai piedi di un piccolo dosso sovrastante la piana del Grumèl, accanto ad una cascatella della roggia di Valle, in questo tratto chiamata roggia di Larì, dalla quale evidentemente partiva la derivazione a suo servizio.
Sarà quello stesso mulino citato in un'investitura del 1235 e ripresa nel 1278 che parla di un mulino "subtus Grumum apud Calavinum"? Considerata la derivazione di Grumèl da "grumus, grumulus", cioè "mucchio di terra", e che questa località è vicina a Calavino, sembra proprio di sì.
Non è certo se questo carro sia stato realizzato da Tullio Morandi o da suo padre, Casimiro; quel che è certo è che rispecchia fedelmente la struttura dei carri che realizzavano nel loro laboratorio.
Il piano di carico, detto scalà, si può togliere proprio come nella realtà e sotto ha fissato la cassa degli attrezzi.
Tolto quello si può osservare meglio la struttura del carro ed il sistema frenante (martinicca) azionato dalla manovella ("macanìcola") posta sul retro che agiva su una trave ("mànghen") sospesa al bilancino ("balanzìn") e terminante con ceppi di legno ("ciòchi") che andavano a spingere sulle ruote.
Sul retro veniva decorato nel rispetto del gusto del compratore.
Per approfondire la conoscenza del carro si consiglia lettura di Retrospettive (1990-3) - pag. 18-23:
La botte della tromba idroeolica, "bót de l'òra" in dialetto, dei Manzoni è oggi conservata presso il Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina - San Michele all'Adige e la si può vedere ricostruita nel cortile all'entrata. È stata lasciata in parte aperta per poter vedere la pietra su cui batteva l'acqua al suo interno.
Sul tavolo di pietra all'entrata della vecchia officina Morandi, accanto alla morsa, qualche resto di prodotti ed attrezzi, spicca il prezziario "tariffa molature coltelli e trinciaforaggi, sarlati e manaroti" un connubio di scrittura antica fra italiano e dialetto.
Negli anni '40 l'officina Morandi è stata riconvertita all'uso dell'energia elettrica, qui le piccole ruote a cassetta in ferro che la alimentavano, come si presentano a 50 anni dall'abbandono.
Cinquant'anni dopo l'abbandono, la tromba idroeolica, in dialetto locale "bót de l'òra", dei Morandi permette ancora di capirne la struttura. Vista dal basso possiamo notare la grande botte di pietra, l'alto tubo che formava la cascata, parte del canale che le portava l'acqua ed il tubo più sottile che entrava nella fucina per fornire ossigeno al fuoco.
La vista da fuori è quello che possiamo osservare anche percorrendo via Ronch.
All'interno della fucina Morandi, chiusa fin dagli anni '60 vediamo ancora la fucina, cioè il focolare a carbone del fabbro nel quale venivano riscaldati sino all'incandescenza piccoli pezzi di ferro che venivano poi lavorati per percussione sull'incudine o al maglio. In questa stessa foto vediamo il maglio, in primo piano il basamento su cui poggiava l'incudine, sotto le finestre la mola, con la sua ruota in pietra abrasiva utilizzata per affilare tutti gli utensili in ferro realizzati.
Luogo pieno d'acqua dove si macera la canapa o il lino. È chiamato così anche il luogo dove si riduce il tabacco o simili ad un certo grado di pastosità per poi produrre il tabacco da fiuto o da masticare.
L'intervista alla signora Amelia è stata fatta su invito di Carlo, uno dei bambini coinvolti nel "Progetto calendario" che Ecomuseo sta svolgendo con la collaborazione delle scuole del territorio.
Amelia, classe 1940, ha lavorato alla fabbrica delle noci Bressan di Fraveggio, dal 1955 fino alla chiusura della stessa nel 1965.
Era un lavoro stagionale che occupava fino ad una cinquantina di donne da inizio novembre a fine marzo.
Ci ha raccontato la sua esperienza in lingua italiana ma poi, tornando sull'argomento, siamo passate al dialetto cosicché nell'ultima parte si può sentire la parlata di Vezzano.
Su questo scaffale della falegnameria Bassetti trovavano posto pialle (quella grande era chiamata "piona"), scalpelli, seghe e cassettine piene di attrezzi e materiali.
Il tornio era collegato alla ruota idraulica tramite cinghie e pulegge allo scopo di bloccare e mettere un rotazione un pezzo di legno. Serve per arrotondare, levigare, forare, decorare... un legno posto in rotazione.
La sega a nastro o bindella è fornita di una sega a nastro circolare che ruota su due volani (ruote) di cui il superiore folle, mentre l'inferiore era collegato alla ruota idraulica tramite cinghie e pulegge. Nella foto storica qui presente vediamo che il suo uso era passato alla trazione tramite motore elettrico.
Questa "bindèla" è stata recuperata ed utilizzata per arredare l'ingresso della casa. Nella foto ravvicinata si vede bene la lama ed il guida lama in legno duro che impediva alla stessa di uscire dal volano durante l'avanzamento del legname da tagliare.
Anche nell’edificio in Via Borgo 10 un mulino venne trasformato in falegnameria, questa volta dai Gentilini, che proseguirono la loro attività fino al 1966.
Terminava con questo edificio il canale di derivazione della Roggia Grande. Dopo aver fatto girare l’ultima ruota idraulica di Vezzano, l’acqua che ne usciva si univa a quella di una vicina sorgente per tornare poi nella Roggia Grande poco più a sud.
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Il lavoro unitario di ricerca sugli opifici ad acqua della Valle dei Laghi, curato da Ecomuseo prima della nascita dell'Archivio della Memoria, è qui consultabile, nello specifico a pag. 18-22:
È nell’edificio in Via Borgo 18 che i Tecchiolli hanno iniziato la loro attività di panificatori prima di trasferirsi a Cavedine.
Avevano iniziato come fabbri, poi sono passati alla macinazione ed infine hanno aggiunto anche la panificazione.
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Il lavoro unitario di ricerca sugli opifici ad acqua della Valle dei Laghi, curato da Ecomuseo prima della nascita dell'Archivio della Memoria, è qui consultabile, nello specifico a pag. 39-41:
Rinomato scultore di Lasino nato il 15 febbraio 1876 e morto il 25 maggio 1966.
Per conoscere la vita e le opere di questo scultore rimandiamo all'approfondita ricerca svolta da un gruppo di lavoro con capofila il Comune di Madruzzo:
In Via Borgo 20 Guido e Mario Pardi, provenienti da Roseto degli Abruzzi, hanno lavorato la ceramica dal 1931 al 1966.
La loro produzione artistica si è avvalsa anche della preziosa collaborazione con il noto artista di Lasino Francesco Trentini, al quale è dedicato un sito: