Scantinato solitamente col soffitto a volta o passaggio aperto sotto una casa anch'esso solitamente col soffitto a volta.
Il diminutivo è "voltìn", termine che ha però anche un altro significato:
Composto di calce e paglia che mescolate assieme formavano un impasto con un buon potere legante utilizzato per la costruzione di pareti interne col supporto di listelli di legno.
Tradizionalmente il paiolo è una pentola di rame dalla base arrotondata e dal manico di ferro ad arco e mobile che veniva appeso alla "segosta" nel focolare, in particolare per fare la polenta.
Le vasche si riempivano tramite l'acqua lì condotta dalla grondaia. Venivano usate per fare il "verderam" per bagnare le vigne: si metteva a sciogliere il verderam e poi si aggiungeva la calcina ottenuta dalla vicina calchèra.
L'apertura a sinistra era il pollaio per le galline ("polinèr"), poi c'era un'apertura per il maiale e il bagno era un semplice buco (ora coperto dal moderno wc). I liquami cadevano direttamente sulla "grassa" (letame) di sotto.
Dato che la camera in casa era troppo piccola per ospitare i genitori, i nonni, la zia e tutti e 7 i fratelli, venne costruita questa casetta dove dormivano i bambini assieme ai genitori sul "paión" "a caf pè", ovvero tutti coi piedi verso il centro.
Come indicano la targa in cemento in facciata e l'iscrizione "C | 1932 | P" (Cesare Pedrotti) sull'architrave della porta, la costruzione risale al 1932, ovvero la data del matrimonio del figlio Albino, padre di Giulio. Il tetto è stato ricostruito verso il 2010.
Residenza estiva della famiglia Pedrotti: in inverno vivevano invece in paese a Cavedine, più precisamente a Musté.
La località si chiama così per via delle "fontane" sulle pendici del monte, visibili nelle risorse correlate a questo contenuto.
La famiglia progettava di ampliare la casa con un'altra camera, una cantina ("càneva") e un garage, ma si pose di mezzo l'avvento della prima guerra mondiale, che chiamò alle armi gli uomini di casa, impedendone quindi la costruzione. Un tempo infatti non si avevano i soldi per pagare degli operai edili, e le case venivano costruite dai capifamiglia con l'aiuto di amici e parenti.
Nello spazio risultante sono stati piantati due pruni ("brugnère"), a testimonianza dell'attività di sostentamento della famiglia, ovvero la vendita delle prugne ("brugne").
L'interno attualmente si compone di una cucina e una camera, poi attraverso una scala a pioli si sale al "solèr", ovvero dove si metteva il fieno. Prima della ristrutturazione del primo piano lì venivano ospitati i bachi da seta ("cavaléri"), che prendevano in aprile a Lasino. Il periodo del loro allevamento era molto intenso perchè gli uomini andavano a prendere le foglie di gelso ("morèr") e le donne e i bambini le tagliuzzavano due/tre volte al giorno per darle loro in pasto. Quando i bozzoli erano pronti li portavano a Cavedine. Al piano terra si trova invece il focolare ("fógolàr") e la "stala" per le bestie (2 buoi e 2 capre), con la mangiatoia ("magnadóra").
I tetti sono stati rifatti verso il 2010.
Da notare la rudimentale serratura.
“El fogolàr” era un tempo il fulcro dell’abitazione contadina, il luogo dove ci si scaldava, si preparava il cibo, si conversava, tanto che viene usato in senso figurato ancora oggi per indicare la casa o la famiglia.
Alla base c’era solitamente un unico blocco in pietra rossa che si alzava dal pavimento, circa 20-30 cm. In mezzo un incavo rettangolare, la “lia”, dove ardeva la legna.
Nella parte inferiore, sotto la concavità, c’era un’apertura per la raccolta della “céndro” (cenere).
Una grande cappa costruita in muratura sovrastava il basamento e appoggiava su delle travi. All’interno, la cappa era attraversata da un’altra trave che sosteneva la “segósta”, una catena che scendeva fino alla “lia”, a cui erano agganciate le varie pentole, la cèla (marmitta), ‘l paröl (paiolo) per cucinarvi le pietanze. Le pentole si potevano collocare anche sopra la “lia” servendosi del "trepéi" (treppiede) affinché non rimanessero a diretto contatto con il fuoco.
Il fuoco emanava fumo, la cappa non riusciva ad aspirarlo completamente, cosicché si diffondeva in tutta la cucina e le pareti diventavano ben presto sporche di fuliggine ("granìz"). Ogni tanto, la donna, per rinfrescarle, ricorreva a imbiancarle con la calcina.
Lungo il bordo della cappa, sulla trave che da essa sporgeva, erano collocati gli attrezzi da cucina che la casalinga utilizzava maggiormente.
Accanto al focolare erano appoggiati gli attrezzi per il fuoco: “el mòi” e “ la paléta”.
Attorno ad esso c’era la “banca del fogolar”, dove i familiari, ed in particolar modo i vecchi, prendevano posto per riscaldarsi al fuoco lento che bruciava nella “lia”.
Piano piano “el fogolàr” ha lasciato il posto alla “fornèla”, che inizialmente aveva comunque intorno la panca mantenendo quel tradizionale spazio caldo e intimo, per cui il termine “fogolàr” è stato poi usato ancora da molti anche per indicare la “fornèla”.
Contenitore in legno con coperchio incernierato sul quale sedersi e dentro cui riporre la legna. Era posizionato accanto alla stufa. Solitamente era munito di schienale e qualche volta di braccioli. Mobile ancora in uso in ambienti rustici.
La foto è tratta da p. 36 dell'opuscolo
Specie di grande mestolo generalmente in alluminio e di forma per lo più rettangolare atto a travasare l'acqua dal secchio o dalla vasca dell'acqua sulla stufa.