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PolentaIl video, tra uno spintone e l'altro dei bambini, mostra e spiega come si gioca a polenta. È dedicato in primo luogo ai bambini delle scuole della Valle dei Laghi che partecipano al progetto di Ecomuseo "Giochi e filastrocche". In allegato la scheda di presentazione del gioco per le scuole.
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Bei momenti, anche se in tempo di guerra, con Flora TasinFlora racconta momenti positivi vissuti a Fraveggio dopo la distruzione della sua casa a Trento il 2 settembre 1943. Cesarino Bassetti, insegnante di musica di Flora, appare in foto mentre suona la chitarra. Le foto del rifugio di cui ci racconta Flora sono attuali: la vista sul lago e la valle è ora interrotta dalla vegetazione.
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Quando l'acqua nelle case non c'era... nei ricordi di Dolores ZuccattiIl video riporta esperienze di vita legate all'uso dell'acqua prima dell'arrivo dei rubinetti in casa. Le immagini sovrapposte aiutano a comprendere il racconto della bisnonna Dolores che si esprime in dialetto. I termini meno usuali sono spiegati nel glossario e linkati a fondo pagina: bugàda, celéti, crazidèi, seciàr, brènta, pizeghìn. La localizzazione in mappa si riferisce alle fontane e lavatoi citati, ormai scomparsi.
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Quando l'acqua nelle case non c'era... nei ricordi di Attilio ComaiIl video è stato realizzato in funzione di un'attività svolta con i bambini della scuola primaria sul tema dell'acqua e riporta esperienze di vita legate all'uso dell'acqua prima dell'arrivo dei rubinetti in casa. La frase che veniva rivolta al piccolo Attilio "'n om che lava? Varda che te va via le scarséle!", anche se detta per scherzo, sottintendeva una netta separazione dei ruoli. La perdita automatica delle tasche, accessorio prezioso per ogni uomo, era una "minaccia" che poteva far pensare e desistere un bambino dal fare lavori da donne. La risposta del bambino dimostra sicurezza e fiducia nella madre. In mappa il video è localizzato nel posto dove c'era la fontana citata. Nel glossario sono spiegati il significato di termini dialettali quali: brentóla, cazza, cassa dela legna, scarsèle, tacàr.
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La chiesa parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo a LasinoWebinar del Museo Diocesano Tridentino
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La guerra raccontata da reduci e civili del Comune di VezzanoMontaggio delle interviste realizzate nel 2005 in vista delle celebrazioni del 60° del Voto a San Valentino, occasione in cui reduci e civili del Comune di Vezzano sono stati invitati a raccontare la loro esperienza di guerra.
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Òcio bèlÒcio bèl, so fradèl, récia bèla, so sorèla, la piaza, la porta, la campanela din don dèla. È una filastrocca tradizionale che si rivolge ad un bimbo o ad una bimba allo scopo di farli ridere. Mentre si recita la filastrocca si toccano con delicatezza le parti del suo viso: gli occhi, le orecchie, la fronte, la bocca. Infine si prende il nasino e lo si porta a ruotare la testa a destra e sinistra. Lievi variazioni sono descritte a p. 13 del fascicolo
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La guerra raccontata da Aldo RigottiL'intervista è stata realizzata in vista delle celebrazioni del 60° del Voto a San Valentino, occasione in cui reduci e civili sono stati invitati a raccontare la loro esperienza di guerra. Nell’agosto del ’44 avevo 18 anni. I tedeschi avevano bisogno di manodopera e quindi mi presero nella Todt, l’organizzazione tedesca del lavoro forzato in Italia. Ma già in uno dei primi lavori, un incidente causato da me e da alcuni compagni di lavoro, mi costrinse a nascondermi. Dopo pochi giorni i tedeschi mi ripresero e mi arruolarono nella Flak, la contraerea. La prima sede fu Vipiteno. Qui, dopo una quindicina di giorni di istruzione sui cannoni e sugli aerei americani (che sorvolavano la zona per bombardare la Germania), fui nominato primo cannoniere, con il compito di indicare la direzione di tiro del cannone antiaereo. Il primo aereo che colpimmo, cadde vicino alla postazione, così potei vedere con disappunto 5 morti americani fra i rottami. Nei due mesi che rimasi a Vipiteno, abbiamo colpito 45 aerei, ma nessuno in pieno come il primo: cercavamo di colpire nella coda, in modo da dare la possibilità agli occupanti di salvarsi. A causa di un colpo di cannone, partito per distrazione e finito vicino a un maso della montagna di fronte a noi, senza peraltro fare vittime, per fortuna, fui trasferito in un paesino vicino a Innsbruck, dove i cannoni erano gestiti direttamente dai soldati tedeschi. Qui rischiai di essere fucilato assieme a un commilitone di Levico, per colpa di un sergente che ci accusò di aver tentato di disertare; mentre era stato lui ad abbandonarci in città senza documenti, dopo una seduta dal dentista. Fortunatamente riuscimmo a salvarci dalla fucilazione, difendendoci dalle accuse. Comunque dovevamo andare a processo. Ma proprio in quei giorni finì la guerra e così potei ritornare sano e salvo a casa.
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Il "Trato Marzo" a Vigo Cavedine raccontato da Alba ChistèAlba Chistè racconta come si svolgeva il "Trato Marzo" nel paese di Vigo Cavedine l'1-2-3 marzo di ogni anno. Si rivolge in lingua italiana ma utilizza anche termini dialettali per dare più risalto ad alcune frasi come "i se trovava" (si trovavano), "per sposar le bèle fiole" (per sposare le belle figlie), "de chi èla, de chi no èla?" (di chi è?, chi sono i suoi genitori? ), "la Alba del Bruno Forto che l'è anca bèla" (Alba di Bruno detto "Forto" che è anche bella), "a chi la dente, a chi no la dente" (a chi la diamo in sposa?), "al Romano Drago che l'è da sposar" (a Romano detto "Drago" che è ancora da sposare), "èl en contrat da far?" (è un contratto da fare?), "e denteghela e denteghela che l'è da maridar" (va bene, che ha ancora da prendere marito).
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La guerra raccontata da Enrico AldrighettiL'intervista è stata realizzata in vista delle celebrazioni del 60° del Voto a San Valentino, occasione in cui reduci e civili sono stati invitati a raccontare la loro esperienza di guerra. Mi chiamo Enrico Aldrighetti, classe 1924. Sono partito da Vezzano, alla volta di Trento, il 16 agosto 1943. A Trento mi dissero di essere arruolato nei granatieri a Roma. Essendo primo in ordine alfabetico, mi assegnarono il compito di condurre 9 reclute a destinazione. Ho assolto il compito consegnando in caserma i miei compagni con i documenti di accompagnamento. Gli americani avevano già cominciato i bombardamenti su Roma e noi andavamo a rifugiarci in campagna. Ben presto arrivò l’8 settembre. Il 9 mattina la caserma era deserta; eravamo rimasti solo in 6, tutti gli altri, compresi gli ufficiali, erano spariti. Ho proposto ai miei compagni di buttare i materassi dalle finestre e venderli. Abbiamo guadagnato 20 lire l’uno. Poi siamo andati alla stazione dei treni dove c’erano pochi soldati tedeschi che hanno fatto finta di non vederci. Forse erano ancora in attesa di ordini sul comportamento da tenere con i soldati italiani. Saliti sui vagoni, piano piano siamo arrivati a Trento. Mi ero messo i vestiti borghesi che avevo ancora nello zaino. Con un basco pagato 3 lire in testa per nascondere il taglio militare, sono riuscito a scendere dal treno senza farmi prendere dai tedeschi che controllavano la stazione. E che nel frattempo avevano ricevuto l’ordine di arrestare i soldati italiani e spedirli in Germania. Sono arrivato al ponte di San Lorenzo e l’ho trovato distrutto dai bombardamenti. Poco più a monte avevano improvvisato un traghetto, così son potuto passare sull’altra sponda e raggiungere Vezzano. Era il 12 settembre del 1943.
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La guerra raccontata da Tullio DaldossNel 2005, in occasione del 60 ° anniversario del Voto a San Valentino fatto dalla comunità dell'ex Comune di Vezzano, Tullio Daldoss di Ranzo racconta, in dialetto trentino, la sua esperienza durante la seconda guerra mondiale. Il 26 gennaio del '42 mi sono recato al distretto di Trento per rispondere alla cartolina di chiamata alle armi. Da qui venni mandato a Treviso dove rimasi fino a giugno per un breve periodo di addestramento militare. Quindi fui spedito con il mio reparto in Piemonte in attesa di essere mandato al fronte. Verso metà ottobre salii con tutto il battaglione sul treno per il fronte russo. Il 27 ottobre scendemmo dal treno alla stazione di un paese di cui non ricordo il nome (e devo dirti che i nomi delle località russe proprio non me li ricordo). Scesi dal treno, partimmo a piedi verso il fronte. La marcia durò 7 giorni. Giungemmo al distaccamento di notte, per non farci vedere dai russi, e qui c'erano ad attenderci i soldati, ai quali davamo il cambio, che subito partirono in direzione opposta per un periodo di riposo nelle retrovie. Stanchi morti ci gettammo sulle brande appena lasciate dai nostri commilitoni. Eravamo all'inizio di novembre. I russi erano abbastanza tranquilli; qualche scaramuccia, qualche bombardamento senza gravi conseguenze. Arrivammo al 12 dicembre. I russi attaccarono la divisione Sforzesca, che era distante da dov'ero io come da qui alla Cappella (usa sempre questi paragoni con località di Ranzo), quasi un chilometro, e li vedemmo passare oltre le nostre linee. Il giorno dopo li vedemmo tornare indietro e qualcuno diceva che erano stati respinti, ma io avevo la sensazione che per noi sarebbe stato l'inizio della fine. Infatti il giorno 16 attaccarono nuovamente e nessuno li fermò più fino al loro incontro con gli americani a Berlino. La sera del 19 dicembre arrivò l'ordine di ripiegare. All'alba, dopo aver attraversato paesi dei quali non ricordo il nome, siamo arrivati ai piedi di una collina, dall'alto della quale arrivava un rumore di spari. Tutto intorno si vedevano carri armati bruciare e la terra era coperta di morti; da quel paese andando avanti come da qui a Deggia (tre quattro chilometri) non si vedevano che cadaveri. Nonostante la stanchezza, il freddo e la paura, mi allontanai il più possibile dal campo di battaglia. Raggiunsi un gruppo di case e vidi che una era adibita a infermeria. Non riuscivo a stare in piedi così entrai e scoprii che la maggior parte dei ricoverati erano italiani. Mi sdraiai in un angolo e presi subito sonno. Al risveglio vicino a me vidi un infermiere russo. Lui parlava un poco l'italiano e disse che stavano arrivando i soldati russi. Con due italiani uscii dall'infermeria e ci incamminammo lungo lo stradone. Ci liberammo dei fucili e delle giberne. Non avevamo fatto che qualche centinaio di metri quando fummo raggiunti da una colonna di artiglieria russa. Alzammo le mani e restammo fermi. Al mattino, era il 22 dicembre, ci radunarono con altri prigionieri sullo stradone e cominciò la marcia che durò fino al primo gennaio, quando raggiungemmo la stazione ferroviaria. Dieci giorni di marcia senza mangiare, dormendo dove capitava, spesso all'aperto, con il freddo, la neve e il ghiaccio che ci bruciavano la pelle. Chi non ce la faceva moriva abbandonato in strada. Io ho cercato di aiutare qualcuno e sono stato aiutato da altri. Ma furono moltissimi quelli rimasti per strada. Alla stazione ci dettero finalmente una pagnotta da un chilo ogni 6 persone. Il nostro campo di prigionia era dedicato alla coltivazione del cotone. Questa attività ci impegnava tutto l'anno fra il seminare le piantine, a due a due ogni 35 centimetri, il zapparle e sradicare l'erba. Finalmente finì la guerra. Iniziarono le trattative fra il governo italiano e quello sovietico per lo scambio dei prigionieri. Fu raggiunto l'accordo di rimpatriare tutti fra il 15 e il 30 settembre. Il 6 ottobre eravamo ancora nei campi di cotone quando giunse un plotone ad ordinarci di rientrare in caserma. Salimmo su due treni che partirono uno la sera stessa e l'altro il giorno dopo. I vagoni erano abbastanza spaziosi e potemmo costruire delle cucine di mattoni per preparare qualche pasto caldo. Durante il viaggio siamo passati vicino a Mosca e siamo entrati anche in Berlino. Finalmente il 2 dicembre abbiamo passato il confine e siamo arrivati in Italia.
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La guerra raccontata da Romano BeatriciNel 2005, in occasione del 60 ° anniversario del Voto a San Valentino fatto dalla comunità dell'ex Comune di Vezzano, Romano Beatrici di Ranzo racconta, in dialetto trentino, la sua esperienza durante la seconda guerra mondiale. Sono partito con il mio reparto nel novembre del ’40, destinazione fronte greco-albanese. Siamo rimasti accampati a Carovigno, in Puglia, fino al febbraio del 1941, a causa del pattugliamento del mare da parte degli anglo-americani. Sbarcati a Vallona, siamo partiti a piedi verso il fronte sul monte Spadarit, dove da giorni infuriava la battaglia contro i greci. Io ero addetto al mortaio da 81. I combattimenti, fra vittorie e sconfitte, proseguirono fino all’arrivo dei tedeschi, così siamo tornati in Albania, vicino al fiume Vajussa. Passato un periodo di riposo, siamo partiti a piedi verso nord fino al confine con la Jugoslavia. Ora il nostro nemico era la Jugoslavia. Fra continue marce e battaglie, sia contro l’esercito Jugoslavo che contro i partigiani, siamo arrivati a settembre del ’42. Il 15 siamo partiti in treno diretti a Bussoleno, in Val di Susa, per combattere sul fronte francese. Qui ho potuto usufruire di una licenza di 30+2. Poco dopo il rientro, siamo partiti in treno per Modane, in Francia. Da qui abbiamo iniziato una marcia terribile verso Marsiglia: 470 Km, una scatoletta di carne e una galletta al giorno. 40 Km al giorno, mangiare barbabietole ghiacciate rimaste nei campi, noci rimaste fra le foglie lungo le strade. Dopo 2 settimane siamo arrivati a Orange, vicino a Marsiglia. Il nostro compito era di presidiare il territorio già conquistato dai tedeschi. Poi siamo passati a Digne, nell’alta Provenza, a controllare una polveriera; quindi a Grenoble. Eravamo qui l’8 settembre del ’43. Il nostro comandante ci consigliò di prendere lo zaino, attraversare le alpi e tornare in Italia. Durante la salita verso il passo del Moncenisio, mi catturò un soldato tedesco e mi condusse verso valle dove la maggior parte dei miei commilitoni stavano disarmati e tenuti a bada dai tedeschi. Poi tutti in marcia, sotto la minaccia dei fucili, attraverso il Moncenisio fino a Susa. Dopo una notte passata a dormire nelle stalle, al mattino ci fecero salire su una tradotta, 30 per vagone: se all’arrivo fosse mancato qualcuno, avrebbero fucilato 3 di noi per ognuno. Scoprimmo ben presto che la destinazione erano i campi di concentramento della Germania. Per mangiare, ci buttavano nel vagone una cassetta di mele mezze marce, che finivano sul pavimento lurido, coperto dai nostri escrementi. Il nostro campo era a Buchenwald. Eravamo forse più di 300.000. Per mangiare cominciavamo la coda alle dieci del mattino per riuscire a prendere una scodella di minestra, fatta di acqua bollita con qualche patata, alle volte dopo le quattro del pomeriggio. Un giorno ci radunarono tutti noi prigionieri italiani. Un generale tedesco, vecchio e con due enormi borse sotto gli occhi (gli ufficiali giovani e in salute erano tutti al fronte), attraverso un interprete ci disse di dividerci in tre gruppi: da una parte chi vuole andare al lavoro, dall'altra chi vuole andare con il Reich e per ultimi quelli che preferivano rimanere al campo. Quasi tutti siamo andati nel gruppo del lavoro; tre con il Reich e una trentina per rimanere al campo. L'interprete, piano piano disse ai trenta che volevano rimanere che correvano il rischio di prendersi un colpo in testa, così vennero nel nostro gruppo del lavoro. Il primo maggio del '45, verso le quattro del pomeriggio, entrò nella baracca un ufficiale tedesco: raus raus raus, andatevene a casa. Ci fece leggere un comunicato che diceva che dovevamo abbandonare l'Austria: chi viene trovato dopo il cinque maggio al di qua di Schwarzag, viene fucilato sul posto. Con due compagni la sera stessa siamo partiti in treno da Salisburgo. Siamo scesi a Spittal an der Drau e abbiamo fatto a piedi tutta la valle del Drava fino a San Candido, un centinaio di chilometri. Qui alcuni partigiani ci hanno fatto mangiare pane e formaggio dandocene anche un po' di scorta. Proseguimmo per Fortezza, sempre a piedi perché le linee ferroviarie erano state bombardate; altri ottanta chilometri. Anche Fortezza era stata bombardata così abbiamo proseguito a piedi giù attraverso Bressanone fino a Bolzano, 50 chilometri. Poi in treno fino a Trento dove ho salutato i compagni di viaggio prendendo il Buco di Vela diretto a Vezzano. Alle quattro del pomeriggio del quattro maggio ero al bar del Carlo Garbari a Vezzano. Dopo una modica bevuta, ho preso la strada dello Scal e prima di notte ero a Ranzo."
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La guerra raccontata da Luigi BeatriciL'intervista è stata realizzata in vista delle celebrazioni del 60° del Voto a San Valentino, occasione in cui reduci e civili sono stati invitati a raccontare la loro esperienza di guerra. Il racconto di Luigi, classe 1919, parte dal 9 settembre 1943. Quel giorno stava rientrando in treno verso Lubiana dopo una breve licenza. Lungo la Valsugana seppe che il giorno prima c’era stato l’armistizio. Alcuni soldati che erano con lui scesero alla prima fermata e tornarono a casa. Lui pensò che fosse più giusto ritornare in caserma a ritirare il congedo. Durante il tragitto, un ufficiale consigliò i militari di passare dal comando di Trieste che lì avrebbero sbrigato le pratiche per il ritorno a casa. Dopo una notte al comando, arrivarono improvvisamente i soldati tedeschi che fecero tutti prigionieri. Dopo 5 giorni e 5 notti di treno Luigi arrivò a Stablack, vicino a Konigsberg, capitale della Prussia Orientale, oggi Kaliningrad. Qui rimase 15 giorni, durante i quali i tedeschi cercavano di convincere i prigionieri a combattere per il Duce, che era stato liberato dalla prigionia sul Gran Sasso. Qualcuno accettò di tornare a combattere; Luigi preferì rimanere prigioniero. Un commerciante tedesco di ferramenta lo prese come lavorante, così poté godere di un po’ di libertà ed ebbe da mangiare a sufficienza. Dopo una quindicina di giorni, i russi sfondarono il fronte vicino a Konigsberg. Luigi, con l’aiuto di un prigioniero ukraino, anch’esso al servizio dello stesso padrone, e di alcuni prigionieri, caricò la merce su 7 vagoni del treno (parte della merce rimase in magazzino, talmente era ricco il negoziante tedesco). Ma dopo un breve tragitto, il treno si bloccò perché i russi erano già lungo il percorso. Allora il padrone caricò su un carro tutta la merce che gli premeva di più e partì verso occidente con Luigi e l’ukraino. Sul Baltico, per sfuggire ai russi, furono costretti a rifugiarsi su un’isola vicina alla riva, percorrendo con il carro un tratto di mare ghiacciato. Qui dovettero fermarsi per un mese, costretti a mangiare anche i cavalli. Finalmente arrivò la notizia che la riva del Baltico era libera dai russi, così, a piedi, poterono riprendere il viaggio verso occidente. A un certo punto Luigi vide un gruppo di prigionieri che sotterravano dei cadaveri e fece questa considerazione: ”E digo da per mi, come fai a saver i soi che i gh’è chi, che quela isola del Baltico l’è piena de cadaveri!”. Ma già durante la prima notte vennero circondati dai russi. Allora si rifugiarono in una casetta nel bosco, abitata da una vecchietta sola. Mentre dormivano, arrivarono alcuni soldati russi e uno si prese gli scarponi di Luigi. Quando si svegliò e vide che mancavano gli scarponi, fu preso dalla disperazione: in quelle condizioni era una condanna a morte. La vecchietta si accorse del problema e cercò in casa delle scarpe dei parenti che forse erano in guerra o forse erano morti. Portò a Luigi un paio di scarponi che sembravano fatti su misura per lui; non sapeva più come ringraziarla. Ripresero il viaggio verso la Polonia. A un certo punto raggiunse quattro prigionieri italiani e con loro arrivò a Varsavia. Qui si consegnarono a un lager dei russi così almeno potevano mangiare. Finalmente finì la guerra. Era il 25 maggio. Il viaggio verso casa fu lungo e pieno di imprevisti: Luigi arrivò a Ranzo il 2 ottobre!
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La guerra raccontata da Elio FaesL'intervista è stata realizzata in vista delle celebrazioni del 60° del Voto a San Valentino, occasione in cui reduci e civili sono stati invitati a raccontare la loro esperienza di guerra. Questo il sunto del contenuto: Partito in treno il primo gennaio del 1941, età 21 anni, destinazione Russia. Il treno fa sosta a Cracovia, in Polonia, per 8 giorni. Ripartenza per l’Ucraina. Scesi alla stazione (non specifica la città), partenza verso il fiume Don (dove c’era il fronte Germania-Italia contro Russia), a tappe forzate e a piedi: 35 o 40 Km al giorno per un mese. Sul Don vengo messo in prima linea in una postazione con mitraglia. L’obiettivo erano i russi sull’altra sponda del fiume. Tentavano l’attraversamento, ma cadevano come mosche: l’acqua era coperta di cadaveri. Scarseggiava il cibo: veniva portato una o al massimo due volte a settimana. Fortunatamente la zona era piena di campi di girasole; così si attenuavano i crampi della fame. Un giorno arrivano i bombardieri russi. Non c’erano ripari. Una bomba cade vicino e mi trovo con il mio compagno di mitraglia, coperto di sabbia per 30 centimetri. Gli altri commilitoni della postazione corrono sotto un albero pensando di essere al riparo. Una bomba centra in pieno l’albero e i miei amici: erano nove. Finito il bombardamento, il comandante ordina a me e al mio amico di raccogliere i poveri resti degli altri nove. Con il telo tenda abbiamo svolto la macabra raccolta: “averen binà su mez quintal de roba, en tut, e i era en nove”. Mi hanno poi cambiato posto. Facevo il porta ordini, dal comando al fronte, un paio di volte al giorno, qualche volta anche di notte. Un tratto di strada era allo scoperto e qualche volta ero il bersaglio del nemico; fortunatamente non avevano una grande mira. Alla fine del ’42 i russi sfondano il nostro fronte. Inizia la ritirata. Con il mio amico ci fermiamo in un paesino per procurarci del pane. Arriva un tenente, forse tedesco, con una slitta trainata da due cavalli: mentre entra a prendere il pane, saltiamo sulla slitta e scappiamo. Le strade erano coperte da 50 centimetri di neve. Nella slitta abbiamo trovato una forma intera di formaggio e una quindicina di chili di zucchero. Finalmente raggiungiamo una colonna di italiani e tedeschi a bordo di camion militari. Abbiamo abbandonato la slitta, ormai trainata da un solo cavallo perché l’altro era morto per strada, cercando di salire sui camion. Abbiamo visto dei soldati aggrapparsi alle sponde per salire e i tedeschi picchiarli sulle mani con il calcio dei fucili. Fra i tanti camion ne abbiamo trovato uno carico di italiani che ci hanno raccolti. Ci siamo fermati in una cittadina per essere visitati: alcuni sono stati dichiarati abili in grado di proseguire la guerra, io sono stato dichiarato “menomato” e quindi da far rientrare in Italia per seguire delle cure. In treno quindi siam partiti alla volta di Senigaglia dove sono rimasto 2 mesi. Il mio problema era la pelle mangiata dai pidocchi: praticamente di pelle non ne avevo più. Bagno tutto i giorni, unguenti e massaggi. E finalmente il ritorno a Ranzo.
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Preparazione delle cartucce per fucile da cacciaLa strumentazione per preparare le cartucce da caccia di inizio novecento, appartenuta al Capitano Oreste Caldini, viene qui descritta da Rosetta Margoni, su informazioni date da Marco Gottardi, che conserva tutti questi cimeli.
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Gemma Comai racconta la sua infanzia a Vigo Cavedine negli anni '50 -'60Sollecitata dalla nipotina, nonna Gemma racconta della sua infanzia ai bambini che partecipano al progetto "Giochi e filastrocche" organizzato in collaborazione tra l'Ecomuseo della Valle dei Laghi ed Istituto Comprensivo Valle dei Laghi-Dro. Per essere ben compresa dai bambini si rivolge in lingua italiana ma utilizza anche termini dialettali per dare più risalto ad alcuni termini come "bala" (palla), "pirlo" (trottola), "salasà" (selciato), "scondiléver" (nascondino), "zorla" (maggiolino).
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El merlerPresentazione del gioco del merler scolpito sulla roccia nei dintorni di Ciago. Le regole del gioco sono presenti nella scheda oggetto collegata.
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Intervista ad Arrigo PisoniIntervista ad Arrigo Pisoni, classe 1932, che ci parla della nascita del Consorzio per la valorizzazione del Vino Santo Trentino, nato il 30 settembre 1976, del quale Arrigo è stato presidente per 21 anni. Ci parla anche di come, in passato, era visto in Vino Santo, durante la Seconda Guerra Mondiale, e di come si sia lottato insieme per far riemergere questa perla della Valle dei Laghi.
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El pirloSpiegazione e dimostrazione di un gioco molto diffuso un tempo tra i bambini di Vigo Cavedine. Il "pirlo" era una trottola di legno con puntale metallico che si metteva e tratteneva in movimento con l'uso di uno spago.
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Il gioco delle cambretteIn seguito al ritrovamento casuale in un orto di Ciago di un reperto risalente a circa 50 anni prima, riaffiorano in Attilio ricordi d'infanzia legati al paese natale di Vigo Cavedine. Si tratta di una "cambreta" ossia di un pezzetto di filo elettrico rigido piegato ad U che i bambini usavano in abbinamento ad un elastico per fare "el gioc dele cambrete", una rudimentale ma efficace fionda da utilizzare sia per giocare che per fare malanni. Come spiega e mostra nel video i bambini avevano le tasche piene di "cambrete" poiché una volta lanciate non era sempre facile ritrovarle: erano piccole, andavano lontano e, se colpivano qualcosa, rimbalzavano proseguendo lontano anche la corsa all'indietro.
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I piti a CiagoDimostrazione del gioco dei piti a Ciago negli anni '60, costituito da 10 livelli più i punti. Sono date indicazioni anche per i principianti e per gli esperti.
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I piti a CalavinoDimostrazione del gioco dei piti a Calavino secondo quanto descritto nella pubblicazione fatta dalla scuola di Calavino nel 1981/82, qui a disposizione:
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La guerra raccontata da Graziano ZuccattiL'intervista è stata realizzata in vista delle celebrazioni del 60° del Voto a San Valentino, occasione in cui reduci e civili sono stati invitati a raccontare la loro esperienza di guerra. Graziano Zuccatti è stato chiamato alle armi il 2 febbraio 1942 all’età di 19 anni. È stato dislocato a Padova, Trento, Caserta ed a marzo 1943 è arrivato in Sicilia per operazioni di carico/scarico carburante e armi su apparecchi da trasporto. Nel giugno 1943, dopo una breve licenza, è partito da Brindisi in direzione Grecia proprio la notte in cui gli inglesi sbarcavano a Pantelleria. Dopo un mese ad Atene è partito per Rodi, proprio quando gli americani sbarcavano in Sicilia. Poco dopo c’è stato il “rebalton”; a Rodi c'è stata qualche piccola scaramuccia contro i tedeschi ed i molti soldati italiani sono diventati praticamente prigionieri. Lui ha deciso di imbarcarsi alla prima occasione per giungere sulla terraferma e tornare a casa. Arrivato a Lero ha proseguito per Atene ed è arrivato a Zemun (Belgrado) dove venivano fatti gli smistamenti. Una parte è stata mandata in Austria e l’altra in Serbia. Lui è finito in Serbia a lavorare per circa un anno in una miniera al Lagersut di Bor, è stata dura giù al settimo piano a 400-450 metri di profondità ogni mattina, ma per gli ebrei, che lavoravano di notte, era peggio. I tedeschi non sono stati cattivi. All’avvicinarsi delle cannonate russe, è scappato insieme a un compagno, Bottazzo Paolo di Lecce, e si è unito ai partigiani. Lì ha visto per la prima volta i cammelli che trainavano i cannoni russi. I russi li hanno autorizzati ad andare a Belgrado per raggiungere la brigata italiana Garibaldi, formata da due battaglioni della divisione Venezia che erano in attesa di essere rimpatriati. Otto giorni dopo aver raggiunto la Brigata il rimpatrio è sfumato e sono partiti per il fronte, da 100 km oltre Zagabria fino a Zagabria quando è finita la guerra. È stato quello il periodo più brutto, con tante battaglie, per fortuna avevano l’artiglieria e l’aviazione russa che li difendevano. Graziano racconta due episodi in cui ha visto la morte da vicino e puntualizza che italiani, tedeschi, russi, slavi nessuno dei soldati che era in guerra aveva colpa, erano "mandati al fronte carne da macello dai signori della guerra". L’11 maggio del 1945 sono stati rimpatriati, ma arrivati in Italia sono stati fermati dagli inglesi che li hanno rimandati in Iugoslavia a Villa del Nevoso. Dopo aver consegnato tutte le armi sono stati rimpatriati per primi i Friulani, poi i Veneti e quindi i Trentini. Arrivato a Verona col treno, Graziano ha raggiunto Trento su un camion inglese ed avviatosi a piedi verso casa ha ricevuto un passaggio da Carlo Garbari e Amato Benigni che rientravano a Vezzano col camioncino.
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La pecora Pot PotTestimonianza di un'avventura capitata a Carla quand'era bambina con la sua pecora Pot Pot raccontata durante un intervento in classe prima della scuola primaria di Vezzano all'interno del progetto memoria svolto con Ecomuseo.
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Ból ból bèlRegistrazione estemporanea realizzata col cellulare durante una passeggiata per tramandare un giochino che i bambini fanno da tempo immemorabile con la capsula dei papaveri sfioriti per timbrarsi un “orologio” sul polso. Ai più piccoli lo fanno i più grandi o gli adulti che li accompagnano. Mentre si tiene premuta la capsula sul polso si recita per tre volte una breve filastrocca: “Ból, ból bèl, fame deventar bèl.” Staccata la capsula il suo disegno rimane impresso sul polso a mo’ di orologio. Un'altra versione della filastrocca è contenuta al n. 7 del fascicolo