Si possono osservare in questo fuso le scanalature in cui sono ancora inserite le robuste assi che fanno da raggi al lubecchio, il disco e la fascia terminale di ferro così come il perno (guéi). Quest'ultimo appoggia su una pietra dura incavata a sua volta posta su una trave alla base del castello, ora in parte coperta da detriti. Per ridurre l'attrito ed il riscaldamento del perno, questo incavo veniva mantenuto bagnato da un rigagnolo d'acqua.
In occasione delle feste madruzziane Ferruccio Morelli con la Pro Loco ha ricostruito un maglio funzionante a ruota idraulica tra il Mulino Pisoni "Tonati" e la "fucina Morandi" per mostrare ai visitatori una delle attività artigianali svolta nel passato proprio lì.
Ora purtroppo non ne rimane che qualche parte.
Queste macine di pietra, dette "mole", molto grosse, sono state trovate nella roggia davanti al mulino-cementificio dei Pisoni Fornéri poi Pedrini ed esposte nel 2009 nella nuova piazzetta delle Regole.
Mentre quella di sinistra presenta su un lato le classiche scanalature e convessità delle mole per la macinazione dei cerali, quella di destra non è lavorata sui fianchi, per cui si presume che sia proprio una delle "molazze" del pestino del cementificio Pedrini.
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Bibliografia:
Mariano Bosetti ne parla a pag. 72 e 116 di
Guardando sotto il castello del mulino Pisoni "Biasi" vediamo sotto una coppia di macine un lubecchio singolo mentre sotto l'altra coppia ci sono due lubecchi di forma diversa.
I lubecchi presenti in ambedue le strutture sono fissati, con 4 razze, al fuso, che era collegato alla ruota idraulica e presentano quel che rimane di 36 denti perpendicolari alla ruota così da trasformare il suo movimento verticale in veloce rotazione orizzontale della ruota a lanterna (rocchetto), in cui i denti andavano a infilarsi, movimentando di conseguenza la macina superiore fissata sullo stesso asse.
Il lubecchio diverso invece è fissato al fuso con una struttura diversa ed i suoi denti sporgono dritti dalla ruota. Si presume che esso potesse muovere un macchinario accanto al castello come poteva essere il buratto.
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Bibliografia:
Šebesta, Giuseppe - pag. 135-136 di
Questo contenitore in legno, aperto centralmente su un lato ed incernierato alla tramoggia (tremògia), era chiamato "tafferia" (casèla) ed aveva il compito di far scendere gradualmente i chicchi nel foro della macina superiore.
Un palo fissato alla tramoggia toccava la macina superiore che, muovendosi, trasmetteva delle vibrazioni facendo alzare e abbassare la "tafferia" provocando la fuoriuscita del grano.
La corda che vediamo infilata nel gancio sulla bocca del contenitore andava ad avvolgersi intorno ad un fuso in cima alla tramoggia ed all'altra estremità aveva un contrappeso così da trattenere la "tafferia" verso l'alto.
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Bibliografia:
Šebesta, Giuseppe - pag. 135-136
Nello scantinato dell'ex mulino Pisoni "Biasi" sono ancora al loro posto sul "castello" due coppie di macine utilizzate fino verso il 1940 per la macinazione contemporanea della farina bianca e gialla. Per terra l'anello di ferro (sércena) che, posizionato nell'apposito incavo della macina inferiore, rivestiva quella superiore in modo da evitare fuoriuscita di farina dallo spazio tra le due mole.
Macina inferiore fissa, proveniente dal vicino molino Pisoni "Tonati", utilizzata nel 1996 come elemento di arredo urbano a ricordo della fiorente attività molitoria diffusa un tempo in paese.
L'opera di presa in pietra che alimentava la "bót de l'òra" e la ruota idraulica della fucina Scalfi partiva a monte di una delle tante cascate della roggia di Calavino.
Sulla vasca di raccolta dell'acqua possiamo vedere la lastra di pietra inclinata usata per lavare.
Racchiusa nell'angusto spazio tra le opere di presa e l'argine della roggia questa "bót de l'òra" conserva intatta la sua parte in pietra. Nella copertura superiore si possono notare i due spazi aperti affiancati in cui erano infissi i tubi necessari per l'entrata dell'acqua e per l'uscita dell'aria. Da questa apertura si può osservare sul fondo il palo in legno dove sbatteva l'acqua per produrre l'aria ossigenata, necessaria alla fucina per mantenere il fuoco vivo così da raggiungere le alte temperature indispensabili alla lavorazione del ferro.
A dirla correttamente si tratta di un mazzetto di "Stipa pennata" o "lino delle fate piumoso", pianta perenne poco diffusa in valle, che fiorisce tra maggio e luglio. Le spighette esposte al sole e al caldo si aprono diventando piumose.
Nelle foto si vede lo stesso mazzo nelle due diverse situazioni.
Lo si usa per addobbare i cappelli tirolesi insieme all'immancabile piuma, ma quello che riportiamo qui è il gioco dei "boacéti".
Emanuele Pisoni, classe 1948 di Calavino, lo faceva da bambino con gli amici.
I ragazzi preparavano un mazzetto di quest'erba che cresceva solo in un luogo a Calavino, lo intingevano nella calce conservata nel “calcinèr” e lo lanciavano sul muro di una casa. Si spiaccicava e rimaneva attaccato per breve tempo alla parete come una “boàcia” (escremento di vacca), di qui il nome del gioco. Vinceva chi la faceva rimanere più tempo sulla parete. Gli raccontavano che quelli più vecchi di lui li intingevano proprio nelle "boàce".
Ci conferma questa versione Dolores Zuccatti, classe 1933 di Ciago, che andava con la sua amica Luigia poco sopra il paese a ricercare quest'erba particolare e difficile da trovare, che chiamavano "molina". Ne raccoglievano uno stelo qua ed uno là, finché riuscivano a farsi il loro mazzetto. Rientrate in paese, infilzavano gli spuntoni sporgenti dalle spighe nelle "boàce", che si trovavano frequenti nelle vie sterrate o selciate, e si divertivano a lanciarle lontane.
La ricostruzione di un mulino in forma ridotta, ma perfettamente funzionante, è stata fatta su un'idea ed a spese di Emanuele Pisoni.
Come per la segheria, è stato subito affiancato da Fabio Bassetti che ha costruito la struttura portante e da Ferruccio Morelli che ha realizzato le parti in metallo; il resto è stato tutta opera sua: ruota, lubecchio, lanterna e tramoggia. Le macine in pietra sono state fatte da Giancarlo Pozzani di Stravino, noto scalpellino.
Massima attenzione è stata data ai particolari, compreso l'elevatore per la rabbigliatura delle macine.
Il mulino è smontabile così da poterlo trasportare e ricostruire in luoghi diversi.
Una pompa permette il movimento e ricircolo dell'acqua, indispensabile al moto della ruota idraulica, laddove non possa essere collegato direttamente ad una roggia.
I pezzi di questo pestino a mole sono stati recuperati dal mulino Ricci Dinòti e montati nel giardino della casa di fronte da Sandro Ricci. A quanto ricorda il pestino è stato acquistato dalla sua famiglia con l'intenzione di affiancarlo alle macine del mulino ma non è mai stato montato nel mulino stesso.
Ad oggi il pestino dei Pisoni "Biasi" è a pezzi, ma chissà che un giorno non riprenda vita.
All'interno della stanza adibita a mulino, per terra, si trova ancora il basamento circolare di pietra del pestino; ha 130 cm di diametro, è incavato ad anello, vi è in centro il foro per l'albero motore in ferro e sui bordi rialzati vi sono 2 punzoni in ferro su cui era fissato l'anello in legno che completava il contenitore. Sul "castello" del mulino, appoggiati al muro dietro le macine e le solforatrici, ci sono l'anello in legno, alto 20 cm, e una delle ruote di pietra (mole) dal diametro di 70 cm. L'altra "mola" gemella è invece all'esterno dell'edificio.
"Io sono la Sega Veneziana e devo la mia rinascita alla “pazzia”, caparbietà e un pizzico di ingegno di tre signori che mi hanno voluto riesumare dalla mia ormai decennale dipartita.
Erano gli anni cinquanta-sessanta quando, dopo centinaia di anni di onorato servizio, ho dovuto lasciare spazio alla incombente tecnologia moderna.
Si dice che io sia nata da un'idea di Leonardo da Vinci; bene c'è da crederci, perché nonostante i miei movimenti siano apparentemente di una semplicità estrema, i vari sincronismi, indispensabili per il buon funzionamento, sono stati un bel grattacapo per coloro che mi hanno riportato alla vita, segno che il grande Leonardo ha dovuto pensarci un po' prima di darmi un'anima.
Certo che il mondo d'oggi è cambiato totalmente da quando operavo paziente governata da un silenzioso e instancabile “Segheta”.
Quel mondo incantato oggi non c'è più. Quando l'acqua movimentava la mia ruota e io cominciavo a sezionare le “bòre” e il “Segheta", come un burattinaio comandava serioso ogni movimento, era musica, musica vera, come quella delle grandi opere, tanto che i passanti si fermavano ad osservare incuriositi a bocca aperta. A conferma di questo, cioè che quel mondo non c'è più, ho dovuto accettare un compromesso per la mia rinascita e funzionare, qualche volta, a secco visto che l'acqua nelle piazze non c'è .
L'importante però è testimoniare in modo realistico il ruolo che ho avuto per centinaia di anni e ringrazio questi tre signori che mi hanno dato questa possibilità.
I protagonisti .
I tre protagonisti citati sono tre coscritti del 1948 di Calavino che oltre ad avere la stessa età sono accomunati da molte altre cose.
Tutti e tre figli di artigiani del legno, tutti e tre appassionati della storia dei vecchi mestieri e curiosi di conoscere i segreti (che rischiano di rimanere tali) delle vecchie macchine e attrezzi di un tempo, per questo si son messi in testa di costruire la Sega Veneziana, strumento di lavoro che ha avuto vita fino agli anni sessanta. In particolare a Calavino l'ultima Sega Veneziana è stata smantellata nel 1968 a casa Pisoni “Segheti”. Si spera che dopo mesi di lavoro certosino questa ricostruzione possa dare testimonianza vera della storia “recente” del nostro paese che in realtà sembra lontana anni luce.
CALAVINO 15 giugno 2008
Morelli Ferruccio — Pisoni Emanuele — Bassetti Fabio"
Questo citato è il testo predisposto dagli autori in occasione della prima attivazione della loro segheria alle feste madruzziane di Calavino del 2008. Nelle foto si vede la stessa sega pronta per l'edizione 2016 della stessa festa e di seguito la sega in funzione all'edizione 2018 del festival etnografico presso il Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina.
Qui la storia della segheria citata:
Subito sotto il "Molin dela Gioana" parte la derivazione un tempo a servizio del mulino Miori, prima per muovere la ruota idraulica e poi per produrre energia elettrica, funzione utilizzata ancor oggi.
La derivazione del "Molin del Pero" era fornita di un bacino di carico seguito da un'altra paratoia e quindi dallo stretto canale che portava l'acqua alla ruota idraulica. Ormai tutto è in disuso e la paratoia è sgangherata.
All’esterno di quello che un tempo era il "Molin dela Gioana", adagiate in una splendida aiuola di lavanda, sono visibili due coppie di macine qui utilizzate.
In primo piano c'è una macina superiore posizionata in modo da vedere la sua concavità ed il foro centrale, dal quale passava sia il grano sia l'albero rotante che ruotava questa macina grazie ad una sbarra di ferro a farfalla (nottola) incastrata negli appositi incavi.
Essa è appoggiata sulla più robusta macina inferiore che rimaneva fissa e serviva da appoggio a quella superiore rotante. Intorno ha ancora l'anello in ferro che permetteva la fuoriuscita della farina in un solo punto.
Questo elemento in pietra con feritoia conservato all'interno dell'ex "Molin del Pero" serviva, in coppia con un altro, a sostenere l’albero motore del mulino, il quale trasmetteva il movimento della ruota idraulica esterna alle macine in pietra all'interno del mulino.
All'esterno dell'edificio una stampa presenta questi elementi dell’antico opificio.
La paratoia in legno apre e chiude la deviazione di parte dell'acqua della Roggia Grande verso il canale di derivazione che la portava sulla ruota del "Molin del Pero". Ad oggi rimane chiusa e la blocca.
Non è certo se questo carro sia stato realizzato da Tullio Morandi o da suo padre, Casimiro; quel che è certo è che rispecchia fedelmente la struttura dei carri che realizzavano nel loro laboratorio.
Il piano di carico, detto scalà, si può togliere proprio come nella realtà e sotto ha fissato la cassa degli attrezzi.
Tolto quello si può osservare meglio la struttura del carro ed il sistema frenante (martinicca) azionato dalla manovella ("macanìcola") posta sul retro che agiva su una trave ("mànghen") sospesa al bilancino ("balanzìn") e terminante con ceppi di legno ("ciòchi") che andavano a spingere sulle ruote.
Sul retro veniva decorato nel rispetto del gusto del compratore.
Per approfondire la conoscenza del carro si consiglia lettura di Retrospettive (1990-3) - pag. 18-23:
La botte della tromba idroeolica, "bót de l'òra" in dialetto, dei Manzoni è oggi conservata presso il Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina - San Michele all'Adige e la si può vedere ricostruita nel cortile all'entrata. È stata lasciata in parte aperta per poter vedere la pietra su cui batteva l'acqua al suo interno.
Cinquant'anni dopo l'abbandono, la tromba idroeolica, in dialetto locale "bót de l'òra", dei Morandi permette ancora di capirne la struttura. Vista dal basso possiamo notare la grande botte di pietra, l'alto tubo che formava la cascata, parte del canale che le portava l'acqua ed il tubo più sottile che entrava nella fucina per fornire ossigeno al fuoco.
La vista da fuori è quello che possiamo osservare anche percorrendo via Ronch.
Su questo scaffale della falegnameria Bassetti trovavano posto pialle (quella grande era chiamata "piona"), scalpelli, seghe e cassettine piene di attrezzi e materiali.
La puleggia costituiva un importante organo di trasmissione del movimento dalla ruota idraulica (e successivamente dal motore elettrico) ai vari macchinari del mulino, tramite cinghie in cuoio.