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  • Ex derivazione fucina Manzoni

    Seppure con una funzione diversa, possiamo ancora vedere la breve derivazione della Roggia Grande che portava alla fucina Manzoni. Da lì partiva un canale (doccia), prima in legno e poi sostituito con uno in ferro, che fiancheggiava l'edificio e portava l'acqua sopra le ruote idrauliche. L'acqua tornava quindi subito nella roggia: energia rinnovabile al 100%.
  • Ora laboratorio Manzoni ma un tempo...

    -------------- Lavorazione del rame -------------- In questo edificio Franco Manzoni continua l'attività storica di famiglia di lavorazione artigianale del rame, con vendita dei prodotti, iniziata dal bisnonno Pietro nell'edificio che si trova poco sotto a questo:
  • Il mulino dei Faes - Burati

    Essendo ambedue Faes i mulini documentati presenti a Fraveggio, li descriviamo utilizzando il soprannome di famiglia del ramo dei Faes che li possedeva, in questo caso i "Buràti". La storia di questo mulino si perde nella notte dei tempi e, come già raccontato nell'introduzione ai mulini di Fraveggio, è documentato che nel 1545 un mulino Faes fosse già attivo e che i figli di Antonio Faes nato nel 1574 avessero assunto il soprannome "Burati", dal nome del buratto, strumento usato nel mulini per separare la farina per granulometria. Nel 1933 questo mulino non era più in servizio, ma possiamo supporre che sia stato dismesso pochi anni prima poiché Giuseppe Faes, bambino a quel tempo, ricorda che si divertiva ad entrare nella cucina di Vittorina e Luigi (Gigi) Faes “Burat” e, tramite una leva, muovere la doccia esterna in legno che portava l’acqua dall'alto sulla grande ruota idraulica a cassetta, anch'essa di legno, mettendo così in moto, anche solo per gioco e per brevi momenti, la ruota ormai scollegata dal mulino che si trovava un tempo al piano di sotto. Possiamo quindi supporre che questo mulino fosse stato attivo almeno tra il 1540 e il 1920. L'acqua della roggia che alimentava la sua ruota idraulica arrivava a Fraveggio dalla cascata del torrione, posta un po' più avanti di dove si trova ora. Per oltre un secolo ha alimentato anche il mulino-falegnameria dei Faes "Nocènti", quindi scorreva a fianco del Vicolo dei mulini per poi dividersi in due rami; all’altezza della chiesa, attraversava il vicolo per affiancare il mulino dei Burati. Ora scorre interrata, solo un pezzo della pietra che la copriva nel tratto in cui attraversava il vicolo è ancora lì, nel punto in cui termina la pavimentazione in porfido ed inizia lo sterrato. Dismesso il mulino, l’edificio fu venduto ai Bressan che nel tempo l’hanno completamente ristrutturato a fini abitativi. Gli attuali proprietari, attenti alle tradizioni, hanno recuperato dai muri dell’orto due macine in pietra, le hanno ripulite e posizionate accanto all’entrata del vecchio mulino per recuperare così alla memoria l’originale utilizzo della casa in cui vivono. --- Bibliografia:
  • Il mulino dei Faes - Nocenti

    Storia del mulino-falegnameria Essendo ambedue Faes i mulini documentati presenti a Fraveggio, li descriviamo utilizzando il soprannome di famiglia del ramo dei Faes che li possedeva, in questo caso i "Nocènti". Presumiamo che la costruzione di questo mulino sia opera dei fratelli Innocenzo e Virgilio Faes, figli di Giovanni Battista Faes "Burat", i primi a prendere il soprannome di "Nocènt", secondo quando risulta dai registri parrocchiali. Essendo loro nati rispettivamente nel 1810 e 1820, possiamo dedurre che probabilmente questo edificio sia successivo al 1830; quel che è certo è che nella mappa del 1860 il mulino era indicato. La relazione statistica della Camera di Commercio e dell’Industria di Rovereto del 1880 cita la presenza di due mugnai attivi a Fraveggio. La memoria degli anziani di Fraveggio ci riporta poi a inizio novecento quando il mulino venne trasformato in falegnameria. L’unica traccia giunta fino a noi di questo vecchio mulino è la presenza di mezza macina di granito in un muro di sostegno nel cortile davanti alla casa. Innocenzo Faes, annata 1890, l'ultimo artigiano di Fraveggio ad utilizzare la ruota idraulica, portò avanti con passione l’attività di famiglia di falegname, continuando a lavorare fin dopo i 70 anni, per poi chiudere definitivamente. Funzionamento del mulino-falegnameria Il mulino dei Nocenti, inserito al piano terra di un alto e stretto edificio, si trovava poco sotto la cascata del torrione. Come vediamo nella mappa storica, la ruota era collocata in origine alla metà del lato maggiore dell’edificio, al tempo più corto e senza sporgenze, al quale, al termine della Grande Guerra, venne aggiunta la cubatura visibile oggi. La falegnameria Faes, che inizialmente si avvaleva di una ruota in legno per ricavare l’energia meccanica, adottò negli anni Trenta una turbina metallica alla quale aveva collegato anche una dinamo per la produzione di corrente continua che gli permetteva di illuminare casa e laboratorio. La turbina, custodita dagli attuali proprietari dell’edificio, è conservata nelle campagne di Fraveggio. Avendo la roggia una portata limitata, al di sopra della cascata, vi era una derivazione con una piccola vasca di carico da cui partiva un tubo che, seguendo la morfologia del terreno, raggiungeva l’edificio e scendeva nel sottosuolo fino al piano interrato della casa dove convogliava il getto d’acqua sopra ad una piccola ruota idraulica metallica, del tipo a cassetta, prima di tornare nuovamente nella roggia. Muovendo una stanga pensile che arrivava all’interno del mulino, l’artigiano riusciva a regolare la posizione del tubo e di conseguenza la quantità d’acqua che cadeva sulla ruota, modificando così la velocità di rotazione dell’albero di trasmissione e dei macchinari ad esso collegati, fino a fermarli. L’artigiano aveva il laboratorio al piano terra fornito di diverse macchine, tra cui: la sega a nastro (detta bindella), la pialla, il tornio e la sega circolare collegate attraverso un sistema di pulegge e cinghie all’albero motore della ruota idraulica situato nel seminterrato. I bambini del tempo ricordano “el Nozent” accedere da una botola al seminterrato dove con un sistema di leve spostava le cinghie da una puleggia all’altra facendo in tal modo funzionare un macchinario diverso al piano superiore. Molti dei suoi attrezzi e dei sistemi di collegamento alle varie macchine erano progettati e costruiti con ingegno da lui stesso. Produceva assi, mobili, serramenti, botti, pavimenti, bare ed una particolare specialità: “scalzi dei sciòpi” (calci di fucile) realizzati su misura, generalmente in legno di ciliegio. Rapporti Mulino - Consorzio Irriguo Interessante il connubio tra falegnameria “del Nozènt” e il consorzio che realizzò l’impianto irriguo per le campagne di Fraveggio. A lavori ultimati, nel 1939, per mantener fede all’impegno di non arrecar danno alla precedente utilizzazione di questo opificio, il Consorzio irriguo comperò un motore elettrico da utilizzare in luogo della ruota idraulica per il periodo da aprile a settembre, quando la roggia veniva utilizzata a scopo irriguo, pagando nel contempo i relativi consumi di energia. Il bello della ruota idraulica era che non consumava acqua: l’acqua faceva girare la ruota producendo energia meccanica, e successivamente anche energia elettrica, poi tornava nella roggia per proseguire il suo corso. In questo caso scorreva a fianco del Vicolo dei mulini e, all’altezza della chiesa, lo attraversava per affiancare il mulino dei Burati. Ora scorre interrata, solo un pezzo della pietra che la copriva nel tratto in cui attraversava il vicolo è ancora lì, nel punto in cui termina la pavimentazione in porfido ed inizia lo sterrato. --- Bibliografia:
  • Antichi mulini di Fraveggio

    Il paese di Fraveggio è attraversato ancora oggi da una roggia che precipita, in forma di cascata, nel terreno sottostante in direzione del Lago di Santa Massenza. L’importanza fondamentale di questo corso d’acqua si rintraccia sia nell’evocativo toponimo “Vicolo dei Molini” sia nei resti di due antichi opifici. Le prime testimonianze, portate alla luce dagli studi del celeberrimo etnografo trentino Giuseppe Sěbesta, si datano al 1545 e ricordano “Un torchio “sotto la fontana” presso l’acquedotto del mulino dei Faes”. Un successivo documento ufficiale del 1553, conservato nell’archivio storico di Vezzano, attesta inoltre che “Giordano "Molesini" da Fraveggio costituisce a favore di Giovanni Maria del fu Giacomo un censo perpetuo di 2 staia di frumento, assicurato sopra un appezzamento di terra arativa, vineata e prativa del valore di 4 staia di semente, sito nelle pertinenze di Fraveggio, in località "su al Molin", al prezzo di 12 ragnesi del valore di 5 lire ciascuno”. Il catasto asburgico, fonte fondamentale e ricca d’informazioni per gli studi trentini, segnala l’esistenza di due mulini a Fraveggio nel 1860. Infine, un ulteriore elemento interessante si ritrova nella relazione statistica della Camera di Commercio e dell’Industria di Rovereto del 1880 che cita la presenza di due mugnai attivi nel borgo. Nel 1933 il neonato Consorzio irriguo di Fraveggio “domanda la concessione dell’acqua della roggia di Fraveggio” dichiarando che “Il compimento delle opere e l’esercizio dell’impianto non danneggerà le due attuali utilizzazioni, - la piccola derivazione per forza motrice del sig. Innocenzo Faes, ed il pubblico lavatoio in piazza di Fraveggio-.” Il mulino Faes a fianco della chiesa non era più in servizio, ma possiamo supporre che sia stato dismesso pochi anni prima poiché Giuseppe Faes, bambino a quel tempo, ricorda che si divertiva ad entrare nella cucina di Vittorina e Luigi (Gigi) Faes, soprannominato “Burat” e, tramite una leva, muovere la doccia esterna in legno che portava l’acqua alla ruota idraulica mettendo così in moto, anche solo per gioco e per brevi momenti, la ruota ormai scollegata dal mulino che si trovava un tempo al piano di sotto. A quanto possiamo ricavare dall’analisi della preziosa ricerca genealogica fatta da Ettore Parisi, il ramo Faes dei “Burati” vanta un’antica origine: i primi registrati con questo soprannome sono i figli di Antonio Faes nato nel 1574. Il buratto è uno strumento per setacciare la farina, soprannome quindi che rimanda alla professione di mugnaio. Fra i Burati, i primi registrati col soprannome “Nocent” sono i fratelli Innocenzo e Vigilio Giacomo nati nel 1810 e nel 1820; della famiglia dei “Nocenti”, poi chiamati “Nozènti”, era l’ultimo mulino attivo a Fraveggio. --- Bibliografia:
  • Il travaglio di Ciago

    "El travài" era stato realizzato dopo la chiusura della fucina Lucchi verso la metà degli anni '40 del Novecento dall'associazione dei contadini di Ciago. Essendo un paese contadino, essa riuniva tutte le famiglie; aveva altri macchinari in comune così come aveva fondato il caseificio sociale, il consorzio irriguo, il negozio cooperativo e il consorzio elettrico. Avere in paese questo importante strumento permetteva di chiamare periodicamente a Ciago il maniscalco evitando di dover portare tutti gli animali a Vezzano per la regolare ferratura. Negli anni '60 l'uso è diventato sempre più saltuario fino a diventare uno strumento di gioco dei bambini, poi una tettoia ed infine è stato demolito.
  • Mulino Eccel

    Il mulino Eccel, accuratamente segnalato nel catasto asburgico del 1860, apparteneva alla famiglia di Giuseppe Eccel ed ha smesso la sua attività nei primi anni Quaranta del Novecento. All’esterno è stato posizionato l'antico pestino in pietra da due cavità lì utilizzato. Grazie all’energia impressa dalla ruota idraulica dei pali di legno con punta in metallo si muovevano su e giù nei pestini, muovendo i chicchi dell’orzo o altri cereali liberandoli così dalla buccia.
  • Fucina Lucchi

    Il mulino di Valentino Lucchi, un alto edificio eretto con muri in pietra, era situato un tempo all’altezza della “curva del feràr” località posta nella parte alta del paese sulla strada che porta in loc. Mondal. Ricordato dagli anziani del paese, l’opificio ospitava una vecchia fucina, demolita al termine degli scontri bellici. Questa fu inaugurata sicuramente dopo il 1860, come dimostrano le linee tratteggiate rosse presenti nella mappa catastale asburgica disegnata in quell’anno. All’interno dell’edificio c’era il maglio collegato alla ruota idraulica, il cui martellio acuto si sentiva fino in Gazza, la forgia alimentata dalla “bot de l’òra”, l’incudine e tutta la strumentazione tipica dei fabbri. All’esterno c’era il “travai” per la ferratura di buoi e cavalli di cui si servivano quelli di Ciago ma anche dei paesi del vicinato; al tempo una strada proveniente da Covelo e Monte Terlago arrivava a Ciago poco sopra la “curva del feràr” e nella “val dei molini”. Per garantire un più costante e forte afflusso di acqua alla ruota idraulica, fu costruita poco sopra una vasca di carico dotata di dimensioni considerevoli (larga 3 m, lunga 1,5 m e profonda 70-80 cm) alimentata dal rio Valachel e collegata a un canale di legno chiamato “doccia” che faceva cascare l’acqua sulla ruota. I ragazzi del tempo usavano la “vasca del feràr” per divertirsi e fare il bagno. Ci racconta Ivo Cappelletti che una volta, uscito dalla vasca, non ha più trovato le sue scarpe, qualcuno gliele aveva portate via. Le scarpe erano un bene prezioso, se ne possedeva un unico paio, alla domenica si passavano con la fuliggine in modo che tornassero belle nere. Valentino saliva da Vezzano al mattino e tornava a casa la sera; a mezzogiorno uno dei suoi famigliari gli portava il pranzo. Forse la presenza di un fabbro di Vezzano a Ciago è legata al fatto che sua madre, Albina Zuccatti, era proprio originaria di qui. Verso la metà degli anni Quaranta del Novecento chiuse questa attività; c’è chi lo ricorda scendere col carro pieno della sua attrezzatura e del legname ricavato dallo smontaggio del tetto. I nuovi proprietari del terreno demolirono poi il rudere inutilizzato per non dover pagare le tasse. Sulla curva del feràr ora non rimane nessuna traccia della fucina. L’officina di Valentino Lucchi proseguì poi la sua attività a Vezzano, nella casa di famiglia all’incrocio tra via Borgo e via Ronch, coi figli Mario, Elio e Bruno Lucchi e l’uso di macchinari elettrici. Rimontarono a Vezzano il “travài” poco lontano dal loro laboratorio, nello slargo dei Tecchiolli accanto all’attuale parco giochi. Nel 1959 i contadini di Ciago si dotarono, attraverso la società che gestiva il locale caseificio, di un proprio “travài” che posizionarono nella stradina dietro al caseificio stesso: era più semplice far arrivare lì il maniscalco che portare tutti gli animali a ferrare a Vezzano.
  • Falegnameria Bassetti

    Nell’edificio in Via Borgo 34 Bassetti Quintino e figli, trasferiti qui da Naran, avviarono una falegnameria accanto al mulino, che prima di loro era di proprietà Broschek ed era gestito da Faes Emanuele. Per essere il più possibile autonomi nella loro doppia attività artigianale si dotarono di una segheria veneziana e di una piccola fucina munita di forgia con “bot de l’òra” ad uso interno. Le due ruote idrauliche, che fornivano l’energia necessaria alternativamente a tutte le macchine, erano alimentate da una specifica diramazione della Roggia Grande realizzata con una condotta in muratura ed una chiusa ancora funzionante. L’acqua veniva poi rimessa nella roggia senza alcun consumo. Negli ultimi anni di attività i Bassetti si specializzarono nella fabbricazione di imballaggi per la frutta ed infine, nel 1953, trasferirono la loro attività a Padergnone in via Nazionale 132 dove prima aveva sede un cementificio.
  • Officina di Morandi Casimiro

    In cima a via Ronch, vi era la nuova officina di Morandi Casimiro, falegname, dove l’Ecomuseo ha posto l’undicesimo ed ultimo pannello del percorso degli antichi opifici del Borgo. È questo l’edificio con ruota idraulica di più recente costruzione, l’unico che prendeva l’acqua dal corso naturale della Roggia Grande. Tra il 1960 e il 1966 Morandi Tullio, "el rodèla" figlio di Casimiro, ed il suoi collaboratori producevano qui carri di diverso tipo. Il fabbro carraio univa le competenze del falegname a quelle del fabbro per realizzare carri trainati da un bue o da una coppia di buoi, carri a due ruote per il trasporto dalla montagna di fieno (broz) e di legna (brozal), carriole e carrioloni, attrezzi da lavoro quali accette, falci, scuri, zappe, rastrelli, vanghe e badili. Particolarmente delicata era la realizzazione delle ruote ed in particolare la rifinitura poiché in pochi secondi bisognava applicare a caldo la lama incandescente ed immergerla rapidamente nell’acqua fredda evitando così che il legno bruciasse. Artistica era poi talvolta la rifinitura dei carri.
  • Fucina Morandi

    La fucina Morandi si occupava della lavorazione del ferro ed aveva annesso il “travai”. All’interno di questo edificio il tempo si è fermato, la fucina rimodernata negli anni ‘40 per convertirla all’uso dell’energia elettrica ha funzionato fino agli anni ‘60, poi i Morandi continuano ancor oggi la loro attività di fabbri in spazi più adeguati sempre a Vezzano. Dopo mezzo secolo di abbandono si vedono ancora tracce delle parti esterne (ruote idrauliche, doccia, tromba idroeolica) e diversi macchinari presenti all’interno sono ancora lì insieme ad ingranaggi, pulegge e cinghie che permettevano di utilizzare di volta in volta la macchina desiderata. Il sito di Ecomuseo con gli approfondimenti è raggiungibile qui:
  • Fucina ramaiolo Manzoni

    Non sappiamo quando la lavorazione del rame ebbe inizio a Vezzano, è certo però che verso il 1922 essa era fiorente tanto che richiamò da Trento il ramaiolo Pietro Manzoni con i figli Antonio e Alfredo, originari di Vicenza, in qualità di dipendenti del signor Locchi, proprietario della locale fucina. Dopo una breve permanenza a Vezzano, i Manzoni si spostarono sulla roggia di Calavino per avviare un'attività in proprio. Verso il 1927 il Locchi vendette ai Manzoni il Iaboratorio artigianale. Nel 1975 i magli, mossi dalla grande ruota idraulica, batterono i loro ultimi colpi. lniziò così anche per i Manzoni l'era dell'energia elettrica, con macchinari moderni e partendo da fogli di rame bell'è pronti. Il sito di Ecomuseo con gli approfondimenti è raggiungibile qui:
  • Cementificio Miori & Graffer

    Il cementificio di Padergnone, sorto nel 1902 per volontà di Giuseppe Miori e del suo socio Graffer, frantumava le marne estratte dalla vicina Lasta dei Conti, dapprima a suon di mazza, poi avvalendosi di magli azionati dalla forza motrice dell'acqua della Roggia Grande. Nel 1924 venne installata una turbina (utilizzata inizialmente a turno con il Nuovo Mulino Miori) che trasformava l’energia idraulica in elettrica per: scaldare il forno, cuocere le marne, frantumare le pietre con la macina e perfino illuminare le abitazioni vicine. L’opificio, venduto nel 1943 alla famiglia Bassetti di Vezzano, fu adattato alla produzione di legname da opera e di imballaggi. Quest’attività andò scemando negli anni successivi portando alla sua chiusura negli anni ‘60– ‘70 del Novecento. --- Bibliografia: Per approfondimenti si invia alla lettura di pag. 371, 379 383-388,394 del testo qui consultabile:
  • Antichi mulini di Padergnone

    Il percorso degli antichi mulini di Padergnone si snoda principalmente a partire dall’incrocio tra via XII Maggio e via San Valentino, attraversa i Vòlti dei Caschi, segue via Montagnola ed infine percorre via di Pendè. Lungo questo itinerario il visitatore può leggere i pannelli dedicati, scoprire la storia degli antichi opifici del paese e notare le differenze esistenti tra gli antichi edifici e quelli odierni. Sono stati collocati sei pannelli illustrativi che descrivono le caratteristiche e le vicende dei seguenti stabili: “mòlin dei Pradi” e la sega del “tòf”, “mòlin del Pero”, “mòlin de la Giòana” e le pescicolture Miori, Nuovo Mulino Miori ed infine cementificio Miori (trasformato nell’ex segheria Bassetti) ed il perduto opificio della famiglia a Prato. Nel corso dei secoli a Padergnone furono sicuramente attivi 4 mulini e 5 opifici costruiti lungo il corso della roggia che attraversa ancora oggi il centro abitato. Nel 1881 la Camera di Commercio e d’Industria di Rovereto testimonia la presenza di 3 mugnai attivi a Padergnone. Diverse testimonianze si possono rintracciare e ricavare anche dalla lettura e dall’analisi delle leggi, diretta espressione dei bisogni e della necessità di regolamentare lo sfruttamento delle risorse naturali del territorio. È interessante ricordare in particolare l’articolo 78, presente nella copia posteriore della Carta della Regola del XVII secolo, che prevedeva la deviazione della roggia dal naturale corso sui prati, nei giorni festivi, da “un vespero ad un altro”. In tale periodo di tempo, era infatti proibito ai mugnai di far refluire l’acqua nel suo letto, per garantire il movimento della ruota del mulino, a meno che un Vicino non si trovasse nell’urgente bisogno di macinare il proprio grano. La popolazione di Padergnone, ispirata dalla fede e dall’importanza socio-economica dei mulini, ha creato ed attribuito dei proverbi ai tre più antichi opifici del paese. Al “Mòlin dei Pradi” è stata associata la frase “Dio ‘l te aiuta”, al “Mòlin del Pero” il motto “Se ‘l podrà ‘l te aiuterà” ed al “Mòlin de la Giòana” il detto “El pòl se ‘l vòl”. Queste espressioni, pronunciate più volte a voce alta, imitano la velocità stessa della roggia che da lenta diventa sempre più rapida. La tradizione locale ha riportato questi proverbi nel “Coro dei Molini”, un canto che ripropone con cadenza ritmico-musicale la potenza dell’acqua della Roggia Grande. Si ringraziano per le preziose testimonianze e la collaborazione: Assunta Mauro, Pierluigi Daldoss, Maria e Valentino Sommadossi, Claudio Miori ed Ezio Bressan. --- Bibliografia:
  • Volontari durante la costruzione cappella della Madonna e delle S.S. Anime del Purgatorio

    Lo scatto mostra un gruppo di volontari durante la costruzione cappella della Madonna e delle S.S. Anime del Purgatorio.
  • Quadro per la stanza da letto

    Era appeso sopra il letto matrimoniale, raffigurava sempre un’immagine sacra. Cornice di radica
  • Pergamena con poesia augurale per gli sposi

    Questa pergamena porta l’augurio per gli sposi, certe altre riportavano una poesia detta “ Campeti”, che era recitata da una bambina/o, nel momento in cui si festeggiavano gli sposi. Generalmente la festicciola si attuava, in casa del marito, dopo la celebrazione del matrimonio in chiesa.
  • Quadro raffigurante il Papa

    La venerazione si estendeva anche al papa di turno. Era chiamato Santo Padre – Pontefice – Sua Santità.L’immagine raffigura papa Pio X
  • Immagine del Sacro Cuore di Gesù

    La devozione al Sacro Cuore di Gesù risale ancora nel Medio evo per opera di una mistica Matilde di Magdeburgo in terra tedesca. Dal Tirolo si era affrancata anche nel Trentino e la sua venerazione portò alla pratica del primo venerdì del mese per 9 mesi consecutivi.
  • Immagine della Madonna

    La devozione alla Madonna fu intensificata dalle numerose apparizioni che si susseguirono nell’800. Dapprima nel 1830 l’apparizione nella Cappella di Notre Dame a Parigi (madonna nel quadro) con l’elargizione della medaglia miracolosa, poi la venerazione per la Madonna de La Salette apparsa a Massimino e Melania e ancora l’apparizione a Lourdes. In ogni casa c’erano raffigurazioni, immagini, statuette della Madonna.
  • Santini

    Con il termine santino si fa riferimento ad un’immaginetta cartacea raffigurante l’icona di un santo o di una santa. Erano conservati nel messale o nel libretto delle Massime Eterne. Un santino era dato a tutti i partecipanti alle funzioni celebrate dal missionario che eseguiva l’omelia oppure in occasione della comunione pasquale. Il santino era predisposto anche dai sacerdoti per la celebrazione della loro prima S.Messa o anniversari vari. I "santini da mort" erano tutti rigorosamente in nero riportanti alcuni dati del de cuius con rispettiva foto. Il frate “dala cerca” (frate francescano che passava per i paese chiedendo elemosina ma anche prodotti della terra) ogni volta che riceveva una derrata in cambio donava al più piccolo della famiglia un santino.
  • Terra benedetta

    Più che un ricordo dell’anno Santo 1950 era un segno devozionale conservare un po’ di terra proveniente da Roma (la città del papa). Pochi erano coloro che potevano permettersi, anche negli anni ‘ 50 un viaggio a Roma, pertanto la persona che effettuava il viaggio, portava a casa una memoria tangibile quale poteva essere anche un po’ di terra.
  • Rosario

    Il Rosario è una preghiera devozionale e contemplativa tipica del rito latino della Chiesa cattolica. La preghiera consiste in cinquanta Ave Maria divise a gruppi di dieci dai misteri che contemplano momenti o episodi della vita di Cristo e di Maria. Il conto si tiene facendo scorrere tra le dita i grani della "corona del Rosario". Le corone erano di diverso formato e grandezza con appeso un piccolo crocifisso. Ogni donna le portava con sé nella tasca della gonna. Si recitava il Rosario tutti i giorni del mese di maggio (mese dedicato alla Madonna), e anche in ottobre (altro mese mariano), così come tutte le sere si recitava in famiglia. La prima domenica si celebrava la supplica alla Madonna di Pompei. Anche nei momenti di lavoro durante la sfogliatura del “zaldo” (granoturco) si recitava il rosario con le litanie, così pure quando ci si ritrovava a far “filò".
  • Santino

    Con il termine santino si fa riferimento ad un’immaginetta cartacea raffigurante l’icona di un santo o di una santa (in questo caso S. Antonio da Padova). Erano conservati nel messale o nel libretto delle Massime Eterne.
  • Quadretto

    Continua scheda C’era la devozione anche per ‘l Bambinel de Praga, in molte famiglie c’era la statuetta del bambinello e si recitava la sua preghiera. Altra venerazione era per Maria Bambina. Anche in questo caso c’era una statuetta racchiusa in una teca di vetro. Molto sentita era anche la devozione per la Madonna di Lourdes, poi ognuno aveva un proprio culto, conservavano l’olio benedetto il giorno di S.Siro, coopatrono del paese, il sale benedetto durante la messa in onore di S.Antonio abate che era fatto mangiare alla bestia ammalata . C’era chi ogni venerdì si recava alla cappella del S.Crocifisso o alla chiesetta di S.Siro.